L’ARTE

è un fiore selvaggio, ama la libertà

2 settembre 1937.
Mio caro Biemel

Rispondo alle vostre domande senza alcuna preoccupazione di forma, registrando alla rinfusa le mie idee e opinioni.
A proposito della funzione dell’arte, un poeta tedesco ha già detto che anche se gli uomini arrivavassero a disprezzare la seta e a preferirgli la canapa, il baco da seta continuerebbe lo stesso a filare.

Così c’è una grande possibilità che si vada verso anni molto tristi, in cui la maggior parte degli uomini saranno angosciati per la sicurezza della loro vita e tutto potrà essere di nuovo sottomesso ad un regime di guerra; tuttavia, alla loro maniera, gli artisti veri non hanno nessun bisogno di divenire dei propagandisti per servire l’umanità, perché sarà sufficiente ch’essi restino degli artisti. Nella mia vita l’arte ha avuto una funzione decisiva nel momento in cui avevo quasi perduto tutta la voglia di continuare a vivere.

Verso il mio trentesimo anno ho attraversato una profonda crisi, che è stata, nello stesso tempo, fisica e spirituale, e di cui ho approssimativamente dato conto nei primi capitoli di Pane e vino, dove racconto del disgusto di Spina verso la politica. La mia crisi è stata ben più difficile, è durata quasi un anno e mezzo, l’ho trascinata nei diversi sanatori, ed infine a Davos, che voi probabilmente conoscete attraverso La montagna incantata di Thomas Mann.

Avendo fino allora vissuto nella politica, e essendo disgustato da essa, mi domandavo se valesse la pena continuare a vivere. Ho dovuto far fronte a questa domanda per un anno e mezzo, tutti i giorni e quasi tutte le notti. Tutto il mio essere mi faceva male, come un uomo che si scortica. Più volte i miei amici hanno creduto che stessi per soccombere.

La guarigione è stata Fontamara, Pane e vino e le altre opere che non sono state ancora pubblicate. Ciò è stato difficile e salutare come una nuova nascita. Adesso il lavoro artistico mi appare come la sola maniera degna che sia a mia disposizione per vivere come un uomo. La creazione artistica, man mano che diventa più facile e sicura, m’appare come una funzione naturale, spontanea inevitabile, insostituibile di me stesso. Tutte le mie precedenti esperienze, che certamente non rinnego, mi apparivano come un tempo di maturazione segreta.

Il bisogno di verità e di sincerità che mi ha allontanato dalla politica dei partiti, è l’impulso principale che mi sostiene nel lavoro letterario. Non solo non ho voluto ritrattare nulla del mio non conformismo politico precedente, ma credo di averlo approfondito molto, di avergli dato un contenuto che lo rende inconciliabile e irriducibile a tutti i compromessi.
La creazione artistica è stata per me una lotta nella quale il mio spirito, libero dalle angosce precedenti, allontanato, affrancato, appartato da un mondo confuso ed equivoco, ha cercato di mettervi ordine ed ha creato un mondo a sé, un mondo semplice, chiaro, evidente, un mondo fittizio, ma vero, in ogni caso più vero del mondo reale e apparente, di cui riproduce la verità nascosta e proibita.

Il mondo apparente è così falso (voglio dire, il mondo ufficiale, il mondo dei fotografi, delle agenzie d’informazione, dei giornali illustrati) che è uno dei doveri essenziali dell’arte ri-creare il mondo, mostrare il meccanismo interiore ed essenziale del mondo e mostrarlo vivente. Il bisogno di sincerità e di verità mi spinge a creare un mondo semplice, chiaro, evidente; e non un mondo irreale, fantastico o lunare, ma il nostro mondo terrestre, il mio paese terrestre, e, nel mio paese, la regione dove sono nato e che conosco e amo come il bambino conosce il seno di sua madre; mi sento spinto a ri-creare questo pezzo del nostro pianeta così come io lo vedo, cioè nel suo aspetto segreto che è veramente doloroso, faticoso, estenuato, oppresso, sanguinante, sotto la facciata ufficiale, sotto la facciata naturale. Io vengo dalla stessa regione che ha dato alle lettere, insieme a molti altri, Ovidio e D’Annunzio. D’Annunzio ha dato delle belle descrizioni superficiali e sensuali degli Abruzzi, prendendo in prestito le immagini dalla mitologia greca, dal rinascimento, dai primitivi, prendendo un po’ da tutti.

Egli ha dato degli Abruzzi una parure verbale meravigliosa. Confrontate gli Abruzzi di D’Annunzio con quello di Pane e vino ed avrete il volto apparente e quello segreto di una regione dell’Italia meridionale. Il mio mondo artistico vuole essere semplice, chiaro, evidente. Come dire che il romanticismo, il naturalismo, il populismo e gli altri ismi, mi sono estranei. I miei mezzi espressivi si sono adattati al mondo che rappresento, cioè essi sono il più possibile chiari, semplici, evidenti. Rinuncio a creare una vita fittizia e apparente con dei giochi di luce sugli oggetti, non voglio che un gatto abbia l’aria di una tigre, un cane somigli ad un orso, una radice a un serpente.

Preferisco chiamare gatto un gatto, cane un cane, radice una radice.
Quello che mi interessa sono i rapporti tra le cose, i rapporti dove le cose si rivelano e attraverso i quali esse si tengono e formano il mondo. Amo mostrare ciascuna cosa per volta e non tutto insieme. Prima il cavallo, dopo la carrozza, di seguito il cocchiere, infine cavallo carrozza cocchiere che camminano. Amo chiamare ogni cosa con il suo vero nome, il suo nome abituale. Amo le cose non equivoche. Da un lato i fichi, dall’altro l’uva; escludo i frutti ambigui. Amo questo mondo per l’odio che provo per l’altro, a quello che domina e che è equivoco, confuso, retorico, parassitario, mondo di parata e di apparenza, mondo di falsi valori, che vive di monete false.

Il mio lavoro contiene prima un giudizio, poi una spiegazione, infine una rappresentazione. Questo lavoro mi rende felice e mi ha ridato il gusto di vivere a lungo. La propaganda non è la mia preoccupazione. Nel lavoro non sono preoccupato di provare qualche cosa. Ma è del tutto naturale che ri-creando il mondo i lettori apprendano delle verità che nella vita ordinaria si ha cura di nascondere.

Solo la verità può accrescere la coscienza, arricchirla, fortificarla, liberarla; essa solo può affermare la dignità umana contro tutto ciò che l’offende e la disprezza. Così l’artista vero è sempre, anche se non lo vuole, un educatore. Questo è ciò che mi separa dalla maggior parte degli scrittori sedicenti rivoluzionari. Nella mia opera la rivoluzione è un dramma estremamente ricco e complesso, in cui l’aspetto politico non è che l’elemento più vistoso. In Pane e vino ho rappresentato i conflitti spirituali di un rivoluzionario, in cui si agitano tutti i problemi della sua epoca.

Negli altri libri si possono guardare dei rivoluzionari con la febbre dell’azione: in Pane e vino si scopre la vita interiore di un rivoluzionario, che non è semplicemente un riflesso della situazione esterna, ma è la vera fonte e ispirazione del suo comportamento. L’atteggiamento rivoluzionario diviene la conclusione di un lungo dramma che comincia con la scoperta di alcune certezze sulla vita e l’uomo.

L’affermazionedi un regno autonomo di spirituale interiorità ha scandalizzato i falsi rivoluzionari che vedono nello spirito solo un riflesso degli interessi materiali, ma questa affermazione documentata da una vita sinceramente vissuta, da una vita che disprezza e calpesta tutti i calcoli di opportunità, non si lascia negare: non si presenta come una tesi da discutere, ma come una verità vivente ed evidente. Mi si è rimproverato di porre delle domande e di non dare risposte. Fontamara finisce con un punto interrogativo, Pane e vino con il segno della croce, alla fine di un capitolo dove Spina ammette la sua diffidenza verso i simboli trascendentali. Io credo che l’essenziale, oggi, sia porre domande. Nei paesi della Propaganda è proibito domandare. Lì non ci sono domande, soltanto risposte. Risposte a senso unico. Gli altoparlanti (che rappresentano le istituzioni più elevate dei paesi della Propaganda) non hanno orecchie per sentire domande, hanno soltanto una grande bocca per dare risposte.

State attente, umane genti, al quia è detto nella Divina Commedia (Fate attenzione, gente umana, al perché). La Propaganda cerca di mettere fuori discussione un gran numero di cose. Porre domande è sufficiente per metterla in pericolo. Un rivoluzionario è un uomo che pone domande.

Il suo precursore è stato Socrate, che non è mai salito in cattedra, non ha mai fatto discorsi, dissertazioni, conferenze, ma camminava nelle vie d’Atene, si mischiava alla gente che andava al mercato e al tribunale, e faceva loro delle domande. Altrettanto vi voglio dire perché le mie simpatie vanno a A. Gide e Jean Giono (del Rifiuto dell’obbedienza). Ora vorrei scrivervi qualche cosa su ciò che penso dell’eredità umanista o cristiana, ma mi accorgo che questa lettera diventa interminabile.

Dunque mi fermo. Fatene ciò che volete in una intervista. Forse, voi potete estrarre qualche cosa dalla mia precedente lettera da aggiungere a questa, altrimenti potrei scrivervi un seguito. Io non sopporto di scrivere a macchina per più di un’ora senza avere mal di schiena. Ma, ugualmente, mi è più facile che scivere a mano, perché mi preoccupa molto per la grafia e ciò mi disturba e mi fa perdere tempo.

(Ignazio Silone)

Silone a Rainer Biemel
Risponde alle domande di Biemel ed espone il proprio pensiero sull’arte. Spiega cosa ha rappresentato per lui la creazione artistico-letteraria, che cosa è la rivoluzione nella sua opera, ciò che lo separa dalla maggior parte degli scrittori sedicenti rivoluzionari e perché nelle sue opere ha posto degli interrogativi senza dare risposte.
2 settembre 1937