Ed Egli si nascose


Nel 1943, mentre era internato a Baden (Svizzera) a causa dei suoi nuovi impegni politici assunti quale dirigente del Centro estero del P.S.I., Ignazio Silone scrisse il dramma Ed egli si nascose, riprendendo, con notevoli variazioni, il tema trattato nel romanzo Pane e vino. Pubblicato nel 1944 a Zurigo, nella traduzione tedesca di Lotte Thiessing, l’opera ottenne un buon successo sia come testo di lettura che come testo sceneggiato; e infatti, tra il 1945 e il 1950, ebbe una decina di edizioni, fu tradotta in cinque lingue e rappresentata in sette Paesi.

Il titolo del dramma è desunto da un passo di S. Giovanni (XII, 36) che, in riferimento a Gesù, recita « et abiit et abscondit se ab eis ». Col che si pone in risalto la dimensione etico-religiosa del messaggio che l’autore vuol comunicare col suo lavoro, senza per questo sminuirne la portata storico-sociale. In una breve nota di introduzione, datata 15 agosto 1944, lo stesso Silone suggerisce al lettore l’esatto significato da attribuire alla vicenda, scrivendo tra l’altro: « Nel dramma moderno interviene con le sembianze di un protagonista un elemento nuovo: il proletario. Non nuovo nel senso ch’esso mancasse nell’antichità, ma perché la sua pena e il suo destino non erano allora considerati materia di storia, di pensiero o d’arte. Se a noi moderni la condizione di questo personaggio appare la più vicina alla verità umana, è perché in fin dei conti tra gli antichi e noi c’è stato Gesù ».
Di qui il radicale rinnovamento che il cristianesimo avrebbe potuto produrre, ma non ancora ha prodotto, nella storia degli uomini. Nel nostro tempo s’impone più che mai il bisogno di risalire alla « verità di Cristo ».

Lo stesso Silone, dopo un lungo peregrinare, l’ha ritrovata: « La riscoperta dell’eredità cristiana nella rivoluzione sociale dell’epoca moderna resta l’acquisto più importante della nostra coscienza negli ultimi anni. E’ un’eredità, quella cristiana, pesante di debiti. Un’eredità viva, dolorosa, quasi assurda. Nella storia sacra dell’uomo sulla terra purtroppo siamo ancora al Venerdì Santo. Gli uomini affamati e assetati di giustizia sono ancora derisi perseguitati uccisi. Lo spirito per salvarsi è costretto ancora a nascondersi ».
La prima edizione in Italia è del marzo 1945 (Documento Librario Editore in Roma). Nell’ottobre 1965, la compagnia del Teatro Stabile dell’Aquila, per la regia di Giacomo Colli, curò la rappresentazione dell’opera in varie città italiane e successivamente anche per la RAI-TV (29 aprile 1966, Programma nazionale). Una seconda stesura del dramma apparve nelle « Edizioni mondiali » di Cino del Duca (Milano 1966). Noi ci atterremo alla prima stesura, che ci sembra più libera e immediata.

 

IL CONTENUTO DEL DRAMMA

L’azione si svolge nella Marsica, nell’autunno del 1935, esattamente nella imminenza della dichiarazione di guerra all’Etiopia. L’opera si compone di quattro atti (nella seconda stesura, comprende invece due tempi e cinque quadri). L’atto primo ci presenta una vecchia stalla, scarsamente illuminata, con un asino legato alla mangiatoia e attrezzi di lavoro sparsi qua e là. E’ mattino. Tre contadini, sui cinquant’anni, dall’aspetto « rozzo e misero » vi si danno convegno per incontrarsi con Pietro Spina, rimpatriato clandestinamente dopo quindici anni di assenza e braccato dalla polizia fascista.

Dei tre, solo Agostino, padrone della stalla, sembra che serbi un po’ dell’antica fede; mentre Matteo e Donato ironizzano sulle « rosse processioni » d’un tempo, durante le quali si esaltavano al canto dell’Inno dei lavoratori. Mortificata ormai la coscienza di tutti dalla propaganda di regime, che senso può avere dare ascolto alle « pazzie » del compagno Pietro Spina? Un benestante come lui può consentirsi la stravaganza di girovagare per il mondo, nascondersi nei boschi e nei pagliai; ma perché venire a compromettere con la stia presenza dei poveri diavoli come loro? Mentre discutono a bassa voce di questo, Pietro scende svelto dalla scala del pagliaio dove ha trascorso la notte e fa per abbracciare sorridente gli amici, ma resta subito deluso dalla fredda accoglienza di Matteo e Donato. Egli si dice felice d’essere tornato a ricostruire i rapporti della vecchia amicizia, specialmente in un momento così delicato in cui l’uomo è stato « mutilato della stia fraternità », il popolo è diventato una massa di « diffidenti umiliati disprezzati », tra cui « prosperano come le zanzare nelle paludi » la vigliaccheria, il sospetto, l’invidia, l’egoismo, il tradimento. Proseguendo nel suo discorso, Pietro si accalora e cerca di spiegare le strane ragioni del suo ritorno nella speranza di non essere frainteso:

« Per non morire bisogna cominciare col riscoprire la fraternítà. Amici, io sono venuto per dirvi questo: è necessario, è urgente stare assieme, metterci assieme, creare in questo paese cellule viventi di uomini interi cioè fraterni, difenderci dal contagio della morte. Vi ripeto che è urgente. Fra pochi giorni, forse anche voi lo sapete, scoppierà la nuova guerra d’Africa, e sarà una guerra fredda cinica infame. Il disprezzo dell’uomo vi celebrerà il suo trionfo. La protesta più efficace da parte nostra non sarebbe qualche rumoroso attentato individuale, ma un atto di amicizia e di fraternità. lo sono tornato dall’esteto, vi ripeto, solo per questo. Non per comandarvi, certo, ma per stare assieme a voi ».

A queste parole, i contadini si scambiano sguardi imbarazzati ed esprimono, ora l’uno ora l’altro, tutta la propria incredulità, osservando al « giovanotto » che il tempo dei sogni ad occhi aperti è finito, sogni ben pagati oltre tutto con violente bastonature e purghe all’olio di ricino: in fondo, essi dicono, la violazione della fraternità dell’uomo non è cosa nuova, poiché da sempre i poveri sono « disprezzati umiliati offesi ». Pietro non s’illude di farsi « capire senza pena »: egli sa che, come « è difficile parlare di colori ai ciechi », così lo è « parlare di libertà e dignità ad uomini che non ne sentono il bisogno ». Per nulla sfiduciato, ma certo non incoraggiato da questi vecchi compagni che – come dice Donato con sarcasmo – non intendono reggergli il sacco nelle sue pazzie, confida loro che verranno altri amici da Roma e da altri posti, per stampare « un giornale in cui sarà rivelata la nuda verità sull’attuale stato del paese ». Li esorta almeno a leggere e meditare quanto sarà scritto su quel foglio, ma i poveri contadini ribattono che davvero « non c’è bisogno di stancarsi gli occhi sulla carta » per conoscere la verità.

Certamente amareggiato, Pietro Spina riceve Un inatteso conforto dalle parole di fra Gioacchino, un cappuccino questuante che, percepito qualcosa del discorso sulla verità mentre entrava in silenzio dalla grande porta della parete di fondo, dà ragione ai contadini che i poveri stanno male « da quando la terra esiste » e, rivolgendosi a Spina con voce più lenta e grave, aggiunge: « E al di sotto di questa verità ce n’è un’altra, meno visibile perché più profonda, ma sorella di essa, legata ad essa e da quella inseparabile: il Figlio dell’Uomo è in agonia, L’Uomo Giusto crocifisso non è morto, come si racconta: Egli è ancera e sempre in agonia, sulla croce. [ … ] Il mondo l’ignora e la Chiesa, forse per pietà di noi, cerca di farci credere ch’Egli sia morto e partito da questa terra; ma Egli è ancora quaggiù, vivo, in croce, in agonia. Quest’è la verità ».

Spina viene toccato da queste parole, ma resta apparentemente impassibile. Fra Gioacchino saluta e se ne va, seguito da Matteo e Donato, che dicono di non avere più tempo da perdere. Poco dopo si sentono dei passi fuori dalla stalla e una bussata alla porta: è il medico Nunzio Sacca, chiamato d’urgenza dalla moglie di Agostino per una visita ad un ammalato grave, che poi scopre essere Pietro, suo compagno di studi al ginnasío-liceo. La sorpresa è reciproca, e reciproche le accuse: appartenenti a due partiti differenti, anzi « a due umanità differenti », Spina rimprovera all’amico d’un tempo la viltà di carattere e l’opportunismo politico, Sacca gli rinfaccia il fanatismo assolutistico, che una volta riversava in Dio, ora nei cafoni.Poi lo scontro si attenua.

Tuffandosi nei ricordi scolastici, le lezioni e le discussioni con don Benedetto, le vicende che seguirono e che li divisero, Pietro accompagna l’amico per un tratto di sentiero nel bosco vicino. Al suo rientro, trova gli amici venuti da Roma: Romeo, un operaio sulla trentína, Luigi Murica, un giovane sui vent’anni che ha lasciato gli studi per la causa operaia, e la sua fidanzata, Annina, una ragazza che fa la sarta, di aspetto « piacente », franca e disinvolta. Dei tre, Murica appare piuttosto scosso: egli, infatti, imparato il mestiere di tipografo e dedicatosi alla stampa clandestina del partito, è stato già arrestato una volta e ha fatto l’esperienza del carcere. Si scambiano alcune impressioni sugli incontri avuti con vecchi compagni dei paesi vicini, compagni che « rimasti a prima del diluvio », non hanno alcun interesse a riprendere la lotta. Pietro Spina commenta testualmente: « Vi è qualche cosa di peggiore della forzata privazione del bisogno della libertà. ed è la mancanza o l’atrofia del bisogno della libertà. E’ difficile risalire il diluvio, risalire contro corrente fino a prima del diluvio ».

Eppure bisogna tentare, a loro giudizio, tutto il possibile per svegliare le coscienze. Mentre discutono di questo problema giunge Cicala, un arrotino ambulante, il quale informa Spina che la polizia sa della sua presenza nella zona e lo ha ricercato per tutta la notte, anche in casa dello zio don Bastiano e della nonna, donna Maria Vincenza. L’incontro si scioglie subito e Spina è costretto a sistemarsi altrove. Il secondo atto si svolge in una modesta locanda, dove Pietro Spina ha preso alloggio nelle vesti di don Paolo Spada, « un prete di altra diocesi ». La scena si apre con tre notabili del posto, che parlano dell’arresto di uno sconosciuto che si crede sia Spina, addirittura sulla base « della piega dei pantaloni ». La locandiera, rimasta sola con i figli da quando il marito dovette andare « a morire disperato in Brasile » perché gli fu reso impossibile vivere nel suo paese, prende le difese del ricercato Spina sostenendo che egli « si è messo fuori dalla legge comune » perché disprezza « le cose che le autorità esaltano »: lei non lo ha mai visto, ma sa che appartiene ad una razza diversa, uni « tazza superba … che ha radici lontane e tenaci ».

Non è facile che la politica lo imprigioni; potrà forse anche ucciderlo, ma non trattenerlo, perché egli « è di un altro mondo ». Mentre la locandiera tiene testa, col suo confuso eppur efficacissimo argomentare, ai tre notabili, sulla porta d’ingresso appare don Zabaglione, un avvocato ben noto per il suo esibizionismo tribunizío, passato dalle idee socialiste al fascismo. In attesa che i gerarchi locali si mettano d’accordo « su alcuni particolari liturgici » per il discorso che egli dovrà tenere di lì a poco al popolo adunato in piazza, don Zabaglione si intrattiene con don Paolo e lo informa sul magnifico tema che tratterà nella sua orazione: la tradizione romana in questa regione. Una vera « miniera d’oro », anche se egli è convinto che la « sola tradizione è borbonica, è spagnola, è forse cristiana, dunque nient’affatto romana ».

All’improvviso, uno squillo di tromba annunzia l’inizio della cerimonia e l’avvocato si precipita in piazza, non molto distante dalla locanda. Don Paolo può così conversare con Uliva, giunto nel frattempo e rimasto in disparte per non destare sospetti, e da lui apprende che la tipografia clandestina è stata scoperta e distrutta dalle forze di polizia. Egli se ne rammarica molto, soprattutto perché non sarà possibile far sentire alcuna voce di protesta e dissenso contro la guerra che sta per scoppiare. Uliva, invece, non sembra dolersene, essendosi ricreduto sulla utilità della lotta clandestina e sulla necessità delle rivoluzioni, tutte destinate – secondo lui – a tradire le promesse di libertà da cui sorsero: è inevitabile, come la storia insegna, che i perseguitati si tramutino, vincendo, in persecutori. Don Paolo respinge con sdegno le affermazioni dell’aniico, giudicandole null’altro che frutto di cinismo. Tra i due nasce uno scontro abbastanza violento, che viene interrotto da tiri improvviso rumore di sedia: è fra Gioacchino, che non porta più il saio, ma veste « come un povero vecchio cafone qualsiasi ».

Don Paolo e fra Gioacchino si riconoscono, anche se non lo danno a intendere: stupiti l’uno dell’altro per il cambiamento d’abíto, sorrídorio e provano la sensazione di dover riprendere « un penoso discorso interrotto ». Al rientro della locandiera, accorsi anche lei alla manifestazione popolare, il vecchio frate le confida di essere stato scacciato dal convento per tutto quello che da tempo racconta alla gente sull’agonia di Gesù. La donna, impietosita, lo invita a restare nella sua casa: essendo egli un caro amico d’infanzia di suo marito, oltre tutto « preso dalla stessa pazzia di lui », potrebbe disporre della locanda come d’un rifugio tranquillo.

Mentre la locandiera cerca di convincere, ma inutilmente, fra Gioacchino a restare, appaiono sulla porta, fortemente turbati, Annina e Romeo, e rivelano a don Paolo che Murica si è messo come spia al servizio della polizia: è stato egli stesso a confessarlo ad Annina, che ne è rimasta sconvolta. Tra lo sbigottimento crescente, don Paolo riesce ora a spiegarsi molte cose, ma non perché Murica non lo abbia fatto arrestare, pur sapendo il suo recapito. Neppure Annina sa darne una ragione e, pur soffrendo come per « un gravissimo lutto », decide di tornare da lui, perché egli è il suo uomo, costi quello che costi. Col terzo atto cambia nuovamente la scena: siamo in una locanda d’un altro piccolo villaggio, Pietrasecca, chiuso tra i monti dell’Appennino abruzzese.

Davanti alla locanda, l’arrotino Cicala sorveglia attentamente mentre è alle prese con forbici e coltelli. Don Paolo e Romeo, sedutí attorno a un tavolo del giardino, discutono del tradimento di Murica, dell’arresto di molti compagni, della dolorosa situazione di Annina Romeo vorrebbe far fuori il traditore, ma don Paolo si oppone dicendo che vi provvederà lui, « senza odio e senza pietà », come « un chirurgo ».

Rimasto solo con la locandiera, don Paolo fa fatica a respingere l’ennesinia richiesta di visitate la vecchia chiesa da trent’anni senza curato e recitare il rosario con le « figlie di Maria ». La vecchia donna s’affanna a fargli capire che Dío lì, « con rispetto parlando, sta per diventare zitella »; ma don Paolo non se ne dà cura, anzi presta più attenzione ad una giovane che, vestita di cenci e a piedi nudi, va con un secchio ad attingere acqua alla fonte, tenendo per mano un bambino sugli li otto anni. Saputo che è stata disonorata da un uomo sposato e che non ha mai voluto rivelarne il nome « per orgoglio », don Paolo le va incontro sorridente e ne vince la diffidenza mostrandosi cordiale con lei e affettuoso col bambino.

Fatto con loro un breve tratto del sentiero di fondo, don Paolo torna nella locanda e vi trova Annina e fra Gíoacchino vestito da povero cafone. Annina è disperata per tutto quello che è successo e specialmente perché prevede che il si-io Luigi andrà incontro ad una sorte non facile. Don Paolo non può rassicurarla su nulla, ma le confida che senza di lei « il partito è diventato grigio e freddo ». Ripartiti da poco Annína e fra Gioacchíno, dalla siepe di rovi del giardino sbuca improvvisamente Luigi Murica, che porta una lettera di don Benedetto: alla vista di don Paolo egli resta come paralizzato, ma subito si rassicura. Impaziente, don Paolo gli propone di fare due passi lungo il sentiero della valle, deciso ovviamente a farlo fuori come un partito rivoluzionario esige; ma, dato un rapido sguardo alla lettera, lo invita a sedere accanto al tavolo, con tono duro e aggressivo. Murica ha così modo di confessargli tutte le sue debolezze, nella famiglia, nella scuola, nel partito; la rinuncia agli studi, a causa delle umiliazioni subite nel diverso ordine sociale di una grande città come Roma; l’arresto e le percosse in carcere; il recupero della libertà e il tradimento; il rimorso della coscienza e l’incontro casuale con don Benedetto, via sicura ma penosa alla maturazione della propria umanità.

Don Paolo ne viene turbato e lo invita a restare con lui. L’ultímo atto si svolge nella modesta abitazione della famiglia Murica, a Rocca dei Marsi, dove si trovano amici e parenti in visita di condoglianza per la morte di Luigi. Tra lamenti e litanie funebri si accenna, come in una sacra rappresentazione, alla tragica fine del giovane avvenuta per le percosse avute nuovamente dalla polizia a seguito della sua decisione di non voler più fare la spia. Ad un certo punto, un contadino anziano, Daniele Murica, padre dello stesso Luigi, con gravità e lentezza saluta i presenti e distribuisce loro pane e vino, parafrasando i versetti dell’Ultima Cena e invitando a non piangere, perché « forse solo Dio in questa occasione ha il diritto di piangere » in quanto « Egli solo può guardare a fondo nell’abisso del dolore senza impazzire ». E ad una donna che ricorda che Luigi, prima di morire, ha aperto gli occhi ed ha sorriso senz’alcuna ombra di disperazione sul volto, eglí aggiunge che negli ultimi giorni gli aveva parlato a lungo di « una nuova speranza, fondata su una nuova fede e una nuova carità »: una « speranza antica », forse « la più antica delle speranze », rivolta « ad un nuovo modo di stare insieme, senza aver paura », un modo « di aiutarci l’un l’altro e di volerci bene ».

A chi gli osserva che si tratta di una bella « illusione », da sempre accarezzata dagli uomini e mai avveratasi, Daniele ribatte che solo i vecchi hanno ragione di non credervi, giacché la loro speranza « non è più di questa terra ». Sopraggiunge, a questo punto, un messo delle autorità locali, indícato come lo Scriba, a comunicare l’ordine « che ogni accompagnamento della bara al cimitero è proibito », ma Daniele lo respinge senza alcuna esitazione dicendogli di riferire ai suoi superiori che « le autorità possono ammazzare un uomo, possono decorare e premiare gli assassini », ma « l’uomo morto appartiene per l’aníma a Dio e per il corpo alla famiglia ». Violare questa « antica e immutabile legge » rientra tra i peggiori sacrilegi oggi possibili, ma chi se ne macchia, dovrà poi fare i conti con Dio appunto.

Lo Scriba resta un po’ in disagio. Dall’a a arrivano intanto fra Gioacchino e Pietro Spina, entrambi in abiti civili. Alla vista dello Scriba, Spina l’afferra per il bavero della giacca e lo spinge con violenza contro il muro mentre fra Gioacchino, separatili, lo accusa d’essere come tutti responsabile della morte di Luigi. Lo Scriba impallidisce all’improvviso, si sente mancare le forze, poi si riprende e scappa via impaurito. Poco dopo giunge anche Annina, la « sposa della città », e si ripete l’offerta del pane e del vino. Arrivano, infine, Agostino Donato e Matteo, i contadini che già si erano rifiutati di seguire Pietro Spina e che ora, scossi da quanto è accaduto, lo invitano a restare: hanno in riserva per lui un nascondiglio abbastanza sicuro, dove potrà spiegare loro che cosa fare e come devono cominciare. Spina, naturalmente, accetta compiaciuto, anche se il compito che li attende si configura solo come « una speranza segreta ».