La speranza di suor Severina


A tre anni dalla morte di Ignazio Silone, avvenuta nell’agosto del 1978 in una clinica di Ginevra, esce il suo ultimo romanzo, dal titolo La speranza di suor Severina (comunemente abbreviato in Severina), nella collana mondadoriana degli « Scrittori italiani e stranieri », a cura di Darina Silone e con prefazione di Geno Pampaloni.

L’opera, iniziata nel 1977, successivamente interrotta e ripresa più volte a causa dei gravissimi malanni che afflissero l’autore, era rimasta in uno stato un po’ frammentario oltre che incompiuto: per l’esattezza, alcuni capitoli (1, 2, 3, 5, 7, 9) erano abbastanza rifiniti; altri (4, 6, 8, 10) erano in stesura non integrale e non definitiva; gli ultimi due (11, 12) solo in abbozzi « per appunti precisi e numerosi, sufficienti a inquadrare le vicende in logica sequenza ».
In siffatte condizioni, forse era auspicabile che il lavoro rimanesse nel cassetto o che venisse destinato non al grosso pubblico, ma al ristretto gruppo degli studiosi della narrativa siloníana e, più in particolare, di quelli disposti a muoversi nel laboratorio segreto dello scrittore, con gli strumenti specialistici atti ad una lettura filologica e magari anche alla ricucitura delle cosiddette varianti.

Senonché Darina Silone, opportunamente consigliata al riguardo, ha deciso di pubblicare il romanzo curandone personalmente la messa a punto, intervenendo sul manoscritto, ora con lievi ritocchi, ora con ripartizioni o ricostruzioni della materia, perfino con una vera e propria elaborazione degli abbozzi conclusivi. Non a caso, dunque, si è osservato dai critici più esigenti che è stata un’operazione arbitraria la sua, anche se condotta con discrezione e perizia, favorita com’era estremamente dal fatto di aver conosciuto a lungo e a fondo la travagliata esistenza dello scrittore e di aver potuto assistere da vicino alla difficile gestazione della vicenda raccontata nel libro. Non si può certo pretendere, come del resto lei stessa ha riconosciuto al termine della sua scrupolosa Storia di un manoscritto aggiunta al testo, che così facendo sia stata salvata « una qualsiasi unità stilistica »; ma neppure si può sostenere che il romanzo finisca di necessità con l’assumere solo il significato d’un « documento » bio-bibliografico.

Indiscutibile, senza dubbio, è il « valore documentale » del libro (arricchito, oltre tutto, d’uno straordinario dossier in appendice, comprendente tra l’altro un suggestivo racconto di Darina su Le ultime ore di Ignazio Silone), ma altrettanto indiscutibile dovrebbe ritenersi, a nostro parere, il valore spirituale e perfino letterario di quei capitoli, e sono la maggior parte, sui quali la mano della curatrice non ha avuto alcuna incidenza, o appena marginale.
Vi si potrebbe anche scorgere, volendo, il segno e il senso d’un testamento morale, al cui centro va posto quel messaggio di riscatto umano attraverso la carità e la speranza (riposta negli uomini, nella storia e, da ultimo, in Dio) che a noi pare sia stato sempre il filo conduttore, tanto più profondo quanto meno ostentato, della vita e del pensiero di Silone, malgrado certo suo apparente pessimismo.

 

LA TRAMA DEL ROMANZO

Siamo a Civitella, un paese immanginario dell’Abruzzo aquilano, in una estate imprecisabile, ma presumibilmente degli ultimi anni ’60. Durante lo svolgimento di un’assemblea sindacale, è avvenuto un tafferuglio con la polizia nella piazzetta antistante all’Istituto « San Camillo de Lellis » e un giovane operaio è rimasto ucciso. L’unica testimone del tragico episodio è suor Severina, che si trovava per caso a passare di lì. Chiamata dalla Madre Superiora a sottoscrivere un resoconto dei fatti preparato dal capo della polizia, la giovane suora si rifiuta energicamente perché dovrebbe mentire, sapendo di mentire, riferendo i discorsi pronunziati in un’assemblea alla quale non ha partecipato e accusando « di provocazione un povero ragazzo massacrato di botte, davanti ai suoi occhi, da un gruppo di poliziotti inferociti ». Non serve a convincerla il richiamo al dovere dell’ubbidienza, né la minaccia che dal suo rifiuto potrebbe dipendere l’iter della parificazione dell’Istituto con le scuole statali. Interviene invano anche don Antonio, un giovane prete piuttosto spregiudicato, che ha delle strette relazioni con le autorità locali e si è reso già responsabile di uno scandalo non finito in tribunale per interessamento della curia vescovile.

Su decisione del tribunale, si procede ad un sopralluogo per ricostruire i fatti. Mentre giudice e avvocati si affannano nel tentativo di accertare la verità si presenta spontaneamente suor Severina e riferisce con scrupolosa esattezza tutto quello che sa e cioè: della piazzetta chiusa con due cordoni di forza pubblica, delle grida e dei lamenti provenienti dall’ínterno della sede sindacale, d’un giovane selvaggiamente colpito a pugni e a calci. Resa la sua deposizione in aperto contrasto con la versione ufficiale, suor Severina emozionatissima rientra nell’Istituto, dove viene rincuorata da suor Gemma, un’anziana consorella che l’ama come una figlia.

La testimonianza di suor Severina ha grande risonanza sulla stampa locale. L’Istituto di « San Camillo de Lellis » per molti giorni è al centro delle discussioni più animate. Molti giornalisti vi accorrono per intervistare la giovane suora che ha avuto il coraggio di contrapporsi alla polizia, ma suor Severina è come sparita: sul suo conto si fanno le congetture più azzardate, poiché tutti ignorano che è gravemente malata di polmonite.

Dopo un paio di mesi, rimessasi dal malanno, suor Severina riceve la visita di don Gabriele, già padre spirituale dell’Istituto ed ora sospeso dall’incarico e dall’esercizio delle funzioni sacre a seguito di una crisi di coscienza che lo ha condotto alla perdita della fede. L’incontro tra i due si risolve in una ben gradita occasione di reciproche confidenze: il prete ricorda che « il sacerdozio era la vera vocazione » non sua, ma di sua madre, la quale lo aveva destinato alla vita religiosa ancor prima che egli nascesse, e ve lo trattenne con le lacrime fino a pochi giorni prima della morte; la giovane suora, da parte sua, ha una storia non molto diversa perché, essendo rimasta orfana di madre in tenera età, fu affidata ad un collegio religioso, ma fu sempre tormentata dal dubbio e finalmente, dopo tutto quello che è successo, sente di non avere più alcuna certezza né su Dio né sulla Chiesa.

Non passa molto altro tempo e suor Severina decide di lasciare, ancora convalescente, l’Istituto e tornarsene a Castelvecchio, suo paese natio. L, accolgono in casa suo padre, don Fulgenzio, e la matrigna, donna Teodolinda, sorella del parroco, dal viso aperto e cordiale, che la rassicura. Trascorrono molti giorni prima di ristabilirsi e di potersi permettere una passeggiata all’aperto. Ai primi tepori di primavera, donna Teodolinda la invita ad uscire ed insieme si recano alla « casetta con le rose », in un vecchio vigneto, nella contrada dei passeri. La riscoperta dei luoghi cari dell’infanzia le procura una emozione incontenibile. Incoraggiata dalla cordialità del rapporto, la matrigna tocca per la prima volta l’argomento della inchiesta giudiziaria sui fatti di Civitella e suor Severina ricorda con terrore, non il contrasto con la polizia, ma l’aggressione della Madre Superiora, che la sconvolse fino a farla svenire.
Finalmente rinfrancata nello spirito, Severina trova la forza di confidarsi anche col padre e gli dice di aver lasciato il convento, persuasa ormai di aver sbagliato vocazione.

Don Fulgenzio è felice d’aver come recuperata una figlia che riteneva perduta e pensa di affidarle, prima o poi, la cura della proprietà di famiglia giacché il figlio maschio, Roberto, fa da tempo l’ingegnere a Torino e non ha voglia di tornare in paese. Ma Severina non promette nulla al riguardo, anzi dichiara di voler dedicarsi alla causa dei poveri, e non per una decisione dell’ultima ora, sì piuttosto per un’intima disposizione avvertita già da ragazza, quando accarezzò l’idea di studiare medicina per diventare « un medico dei poveri ».
Ristabilitasi pienamente in salute, Severina tenta di trovarsi un’occupazione. Su segnalazione del prof. De Magistris, si presenta all’Istituto Bellavista, fondato da un filantropo dell’Ottocento per accogliere « i poveri vecchi ciechi della contrada ». Ricevuta da un giovane prete, « un tipo baldanzoso, allegro e ciarliero », resta fortemente stupita delle delucidazioni sul regolamento antiquato e sulla « svolta democratica » e, dopo aver rifiutato un invito a cena, se ne torna a casa delusa.

Non meno deludente riesce un secondo tentativo: al liceo dell’Aquila si profila la necessità di una supplenza temporanea di italiano e latino; il preside in un primo momento sembra disposto a concederla a Severina, ma poi recede dalla promessa per l’intervento « di una persona molto autorevole ». La cosa viene risaputa e suscita un certo malumore tra gli studenti. Per il tramite d’uno di loro, un certo Lamberto, incontrato all’uscita dalla Presidenza della scuola, Severina conosce un gruppo di giovani che la invitano per l’indomani ad un corteo di protesta per i disoccupati. Accetta l’invito, dopo essersi assicurata che si tratta di una manifestazione pacifica.

Severina passa una notte insonne per le cose che le sono accadute, tra le quali il rifiuto del preside, il quale le ha fatto capire « di essere perseguitata per aver detto la verità », il che la mette, storicamente, in buona compagnia ma rende « più ardua la sua ricerca di lavoro »: da chiunque e dovunque si rivolgerà, la testimonianza sui fatti di Civitella finirà per condizionare la sua richiesta. Non ha certo urgente bisogno di guadagnarsi il da vivere, ma se vuole dedicarsi a quella che ritiene la sua nuova missione sociale, deve rendersi economicamente indipendente dalla famiglia. Un altro problema la rende non meno inquieta: l’indomani, parte cipando per la prima volta ad una manifestazione operaía, toccherà con mano quello che finora ha potuto solo immaginare e sarà forse per lei come una prova del fuoco.

Tra questi rimuginamenti non riesce a prendere sonno. Sul far del giorno, decide di recarsi con la funivia a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, per realizzare un sogno che dura dagli anni del ginnasio e del liceo, frequentati appunto a L’Aquila. Spera così non solo d’ingannare l’attesa per il corteo del pomeriggio, ma anche di riposare un po’ il cervello, riordinando i pensieri della notte. La gita, compiuta in tutta libertà nelle prime ore del mattino, le consente di scoprire la bellezza incontaminata della natura e le ridona molta serenità. All’ora fissata, Elena, l’amica di Lamberto, va puntualmente a prendere Severina in albergo, per accompagnarla al corteo. Severina resta fortemente sorpresa di fronte a quella gran folla di studenti e giovani operai, oltre che impressionata dallo schieramento delle forze dell’ordine. Il corteo percorre le vie centrali e raggiunge piazza Sallustio, dove si tengono i discorsi ufficiali.

Le parole degli oratori vengono sottolineate da applausi e grida di consenso. Tutto sembra procedere, pur nella crescente confusione, tranquillamente. Ma, ad un certo punto, la folla non riesce a trattenersi entro lo spazio limitato dal cordone di polizia e qualche poliziotto, all’ovvio scopo d’intimidirla e ristabilire un po’ di ordine, comincia a sparare in aria. Nella ressa che ne segue, mentre cerca di raggiungere Elena finita in una mischia pericolosa, Severina resta gravemente ferita da un colpo alla schiena e stramazza a terra sanguinante.

Trasportata all’ospedale in gran fretta, viene sottoposta ad una operazione chirurgica lunga e delicatissima, che comunque non riesce a salvarla. Nelle poche ore che le restano da vivere, raccomanda al padre di ritenere l’accaduto come un doloroso incidente e di sottoscrivere, per suo volere, la donazione delle sue cornee e dei suoi reni. Intanto la notizia dei drammatici fatti si diffonde in un baleno: tutti i mezzi di comunicazione si mobilitano e ne danno le versioni più assurde, anche nel ricordo dei fatti di Civitella. Le autorità locali, il sindaco, il questore, perfino il preside del liceo vorrebbero « ossequiare » la povera Severina, ma i medici proibiscono categoricamente di affaticarla con visite non necessarie. Vengono ammessi, per l’estremo saluto, solo i parenti stretti, oltre a don Gabriele, col quale Severina sente « una profonda fratellanza’» per la sua condizione di umiliato, e suor Gemma, la vecchia consorella dell’Istituto di Civitella che, preoccupata per la sorte della sua « bella anima », le chiede se crede ancora in Dio.

Nel barlume di coscienza che le rimane, Severina risponde: « Spero, suor Gemma, spero. Mi resta la speranza ». Queste sono le ultime parole che escono dalle sue labbra. E con queste parole si chiude quello che Ignazio Sailone definì il suo ultimo “romanzetto”.

Testi del prof. Vittoriano Eposito