Il segreto di Luca


Il secondo romanzo, tra quelli scritti da Silone dopo il suo rientro in Italia, s’intitola Il segreto di Luca ed ha per tema la storia di « un amore impossibile » che, stando alle apparenze, rappresenta una svolta piuttosto brusca nell’itinerario umano e artistico dell’autore, ma, per chi sappia guardare in profondità, costituisce un altro significativo tassello nel singolare mosaico che le opere siloniane vanno costruendo il difficile nesso da scoprire tra l’uomo e la società non meno che tra l’uomo e il suo destino.

Composto con insolita rapidità nel corso del 1956, pubblicato lo stesso anno nella collana « Narratori italiani » di Mondatori, il libro parve piuttosto sorprendente a certa critica che non faceva troppo affidamento sulle capacità inventive di Silone, ritenuto dai più un narratote-saggista impegnato, un dolente testimone e, in qualche caso, addirittura solo un austero moralista. Furono molti, in Italia e all’estero, a credere che Silone si, fosse finalmente liberato dalla problematíca ideologico-politica e che il romanzo segnasse appunto il suo distacco dai racconti cosiddetti « sociali » dell’esilio. Ma la realtà era ben diversa e fu lo stesso Silone a precisarlo in una lunga nota inviata ad un settimanale di New York, dove era apparsa una recensione in cuti si rimarcava appunto il suo abbandono della tematica sociale . Non sarà inopportuno qui riferire il passo centrale, dove Silone tocca l’argomento in termini polemici, ma estremamente misurati e illuminanti

« ( … ) Benché, lo ripeto, un giudizio esterno, d’ordine politico e sociologico, in questo libro, mi sia del tutto indifferente, ritengo che non lo si possa definire come in un racconto che astragga totalmente dalla condizione sociale. Sarebbe tale se fosse la storia d’un Narciso, la descrizione d’un uomo che si guardava allo specchio, innamorato di se stesso; Luca era invece un uomo normale che amava una donna normale. Il loro amore tuttavia era impossibile. Perché? Ma giustamente a causa della società, di cui lui e lei erano espressione. chi in Il segreto di Luca non scorge la società, somiglia a chi nel giardino zoologico cammina curvo e vede le talpe e non l’elefante: è troppo grande, occupa troppo spazio. Ma l’elefante c’è. Lo svolgersi ineguale d’un amore, l’ostacolo del matrimonio, il maturare d’una passione senza apparente via d’uscita, il processo, l’accettazione dell’ergastolo, la separazione dei coniugi, l’ostilità dei paesani, l’amicizia, la fedeltà, questi fatti, che costituiscono la trama del racconto, sono tutti fatti sociali. E ancora la stessa società di Fontamara, trivellata fino a un livello che prima non avevo esplorato. E la preistoria di Fontamara. Se non rischiasse di apparire dettato da un gusto del paradosso, direi che Il segreto di Luca è il più sociale dei miei libri » .

Il segreto di Luca, pur nella disparità delle valutazioni, ebbe un successo straordinario, di pubblico e di critica. Nel giro di un anno appena, fu tradotto in dieci Paesi e ampiamente citato su giornali e periodici di numerosi altri. La stampa d’ispirazione comunista questa volta, osservò la regola del silenzio e non quella del dileggio. Alto l’indice di ascolto della versione televisiva curata da Ottavio Spadaro in collaborazione con Diego Fabbri e trasmessa nel maggio-giugno 1969, sulla prima rete.

 

LA TRAMA DEL ROMANZO

Siamo nell’estate dell’immediato dopoguerra, a Cisterna dei Marsi. Un uomo sulla settantina, Luca Sabatini, dall’aspetto d’un mendicante, torna nel piccolo villaggio dopo un’assenza di moltí anni, all’insaputa di tutti. Dando uno sguardo alla montagna che gli sta di fronte, si arresta bruscamente nel non ritrovare la selva d’un tempo e, addirittura, prova un senso di « pena e orrore » nell’apprendere che essa bruciò forse per « la maledizione di Dío ». Arrivato davanti alla vecchia chiesa, chiede inutilmente del parroco di sua conoscenza. Mentre attraversa lentamente il groviglio di vicoli della parte più antica del borgo, una donna anziana, cieca, ne riconosce il passo e chiede con insistenza il suo nome, ma una ragazza le risponde che si tratta d’un povero vagabondo.

Giunto ad una piazzetta, si dirige verso una casa abbandonata, con la porta sprangata da un asse di legno: era, una volta, la sua modesta abitazione. Mentre si sforza di aprirla, scambia due parole con un bambino « scalzo e senza camicia », un trovatello con una « maschera di fango » sul viso, che dice di chiamarsi Toni, soprannominato Testa Dura. Il giorno dopo, negli uffici del Comune, il maresciallo dei carabinieri ignorando che Luca è già in paese, espone al sindaco le sue apprensioni per l’imminente ritorno dell’ergastolano, temendo comprensibili risentimenti e propositi di vendetta: egli infatti fu condannato per un omicidio che non aveva commesso e, dopo quarant’anni, è stato scarcerato solo perché il vero responsabile del delitto, in punto di morte, ha confessato finalmente la sua colpa. Tra i pochi che lo ricordano c’è don Serafino, gia parroco del paese, il quale, per scongiurare eventuali guai, propone di far ricoverare Luca nell’ospizio provinciale dei vecchi. Ma subito dopo, Toni lo informa che Luca lo attende a casa sua.

Intanto un’altra notizia mette in fermento il villaggio: Andrea Cipriani, un maestro elementare imprigionato e confinato per antifascismo e che si è distinto nella lotta partigiana, ritorna carico di gloria dopo dodici anni di lontananza. Si costituisce un comitato di notabili per riceverlo il più degnamente possibile, Gli amministratori comunali e don Franco, il giovane parroco tutto preso da progetti edilizi, sperano di ottenere da lui raccomandazioni e appoggi per il bene del paese e dei suoi abitanti.
L’indomani, di buon’ora, Andrea Cipríaní arriva in motocicletta a Cisterna e si reca dal vecchio don Serafino, l’unico di cui abbia una qualche stima. Chiede ragguagli sui particolari della cerimonia che si è preparata in suo onore’ e, tra l’altro, viene a sapere della scarcerazione di Luca. Vivamente sorpreso, esprime il desiderio di vederlo subito.

L’incontro, benché tra sconosciuti, è denso di emozioni per entrambi. Andrea si abbandona ai ricordi: frequentava la terza elementare quando Teresa, una cara amica di famiglia, gli chiese di tenere la corrispondenza, per lei che non sapeva leggere e scrivere, col figlio Luca, rinchiuso in un carcere lontano, nonostante fosse innocente. Divenne così il confidente delle pene inenarrabili di una madre angosciata da un destino crudele. Fu, per lui, « la rottura precoce con l’infanzia, il primo incontro con i dolori dell’esistenza »; anzi, « la prima scoperta del doppiofondo dell’esistenza umana »: quello che si vede e « quello che c’è dietro ogni cosa », cioè i fatti « realmente vissuti » e quelli solo « temuti o desiderati ». Il ragazzo, nel volgere di pochi mesi, divenne sempre più cupo e solitario. Poi la morte prematura della povera donna interruppe quel misterioso rapporto di dolori. Ma da allora egli portò sempre con sé la triste persuasione che nel mondo c’è una « innocenza perseguitata » e, per giunta, destinata a rimanere segreta.

La conversazione con Luca si prolunga per molto e Andrea si rifiuta di recarsi alla cerimonia fissata per lui in municipio, dove lo attendono invano le autorità e la popolazione convocata appositamente. Il solo a rallegrarsi dell’affronto è don Severino, che anzi decide di ospitare a casa sua i due amici, pur sapendo di andare incontro a qualche dispiacere. Andrea, che è stato sempre angustiato dalla vicenda di Luca, vorrebbe proprio penetrarne il mistero: capire perché durante il processo non volle difendersi. Ma Luca non parla: non avrebbe alcun senso dire ora quello che si rifiutò di dire ai giudici.
Tutto deciso a trovare il bandolo dell’aggrovigliata matassa, Andrea si reca a L’Aquila per consultare gli atti del processo, che si trovano e, in possesso del vecchio giudice che al tempo rappresentò l’accusa. Andrea non si lascia sfuggire l’occasione per chiedere qualche chiarimento e il giudice ribadisce, nonostante la confessione dell’uomo di Perticara, le sue convinzioni circa la colpevolezza di Luca: « un primitivo e un violento », che nel primo interrogatorio gli strappò il codice dalle mani e lo gettò nel cestino, « un villano » inchiodato alle sue responsabilità da gravissimi indizi e incapace di inventarsi un alibi qualsiasi, condannato per giunta da una corte i cui giurati « erano in maggioranza contadini e negozianti ».

Andrea muove qualche obiezione a difesa di Luca, ma il giudice è irremovibile nelle sue idee, al punto che si dichiara contrario ad un eventuale processo di riabilitazione. Tra le cose dette dal vecchio -,iudice, ve n’è una che mette Andrea in grande ansia dandogli il sospetto che don Severino « sia stato complice » della grande disgrazia di Luca: il parroco dell’epoca infatti, avendo assistito ad un colloquio in carcere tra Luca e sua madre e appreso che a Cisterna vi era qualcuno che poteva testimoniare a favore dell’accusato, non fece nulla per costringere la povera donna a parlare e si rifiutò perfino di invitare tutti i parrocchíani a compiere il proprio dovere.

Tornato da L’Aquila, Andrea rinfaccia tutto questo a don Severino, ponendolo in grande agitazione e inducendolo con la forza a dire che Ludovico il mugnaio ne sapeva qualcosa. E infatti, la notte del delitto (un mercante era stato ucciso e derubato sulla strada nazionale ad un paio di chilometri dal paese), Ludovico, dopo un sogno spaventoso della moglie Agnese, fatta una perlustrazione intorno al mulino, trovò Luca come inebetito, con lo sguardo fisso sulle acque del canale: non ebbe modo di smuoverlo, ma dalla finestra poté controllare che rimase lì fino all’alba. Qualche minuto dopo, Luca, mentre rientrava in paese tutto « intirizzito e stralunato », sorpreso dai carabinieri, non volle dire come e dove avesse trascorso la notte, e perciò fu arrestato. Ludovico, se fosse stato chiamato a testimoniare, non si sarebbe rifiutato; anzi, andò anche lui a L’Aquila, con don Serafino e la madre di Luca, durante l’istruttoria, ma il parroco non lo fece intervenire, raccomandandogli di non parlare con nessuno della cosa.

Del resto, lo stesso Luca si era opposto a farne il nome: e bastava la sua deposizione a scagionarlo dall’accusa del delitto. Andrea, ben sapendo che Luca non è un pazzo, continua a tormentarsi sulle ragioni misteriose della sua condotta durante e dopo il processo. Un giorno decide di recarsi a Perticara, un paesino poco distante da Cisterna, per raccogliere qualche informazione sui rapporti che intercorsero tra Luca e Lauretta, la sua fidanzata morta non molto tempo dopo il processo, ed ha la fortuna di poter parlare con la sorella di lei, Gelsomina, l’unica superstite della famiglia.

Il colloquio si rivela non privo di sorprese: la relazione tra Lauretta e Luca era sorta un po’ per caso, mentre lavoravano entrambi alle dipendenze di don Silvio, ricco proprietario di Cisterna, sposato con Ortensia, e si era trascinata per un paio d’anni, senza eccessivo entusiasmo da parte di lui; finalmente pareva avvicinarsi il giorno delle nozze e proprio la sera precedente al delitto la parentela s’era data convegno in casa della promessa sposa per concordarne la data e i preparativi, ma Luca giunse con molto ritardo e solo per dire, tra le lacrime, che non poteva rendere infelice Lauretta, di cui implorò in ginocchio il perdono come un indegno e un criminale, e andò via senza dare spiegazioni. Seguirono ore di disperazione per tutti. Poi, l’indomani giunse la notizia dell’assassinio e dell’arresto, che mise a tacere i risentimenti.
Ma Lauretta lo credette sempre innocente ed ebbe la forza di affermarlo anche al processo.

Infaticabile nelle sue ricerche, Andrea con brusche maniere costringe Agnese, la moglie di Ludovico il mugnaio, a dare giustificazione d’un particolare appreso da Gelsomina e cioè perché aveva portato a Lauretta dei regali molto costosi da parte di Ortensia. Agnese ammette che tra Ortensia e Luca c’era stata dapprima null’altro che una reciproca simpatia, la quale però si tramutò in accesa passione in Luca quando Ortensia sposò don Silvio. Il fidanzamento con Lauretta era stato agevolato dagli stessi don Silvio e Ortensia, per liberare Luca da quella idea fissa, ma non fu così, anche perché Ortensia ebbe la « ingenuità, » e la « imprudenza » di fargli frequentate la sua casa, anziché respingerlo come un « sospirante molesto ». A questo punto, Andrea ha un sospetto che potrebbe guidarlo a scoprire « il segreto »: la sera della rottura del fidanzamento con Lauretta, Luca ripartì da Perticara verso le dieci e circa un’ora dopo doveva essere a Cisterna; ma solo alle tre del mattino fu visto da Ludovico e Agnese vicino alla gora del proprio mulino: dove poté trascorrere le
ore íntermedie? e, l’ínterrogativo che Andrea pone bruscamente a don Serafino, lasciandogli intendere che per lui dovette trascorrerle con Ortensia. Don Serafino, colto di sorpresa, rifiuta decisamente l’idea d’un adulterio, perché convinto che Ortensia « era profondamente onesta », anche se poteva sembrare « civettuola e vanitosa, sia con Luca sia con altri giovani che già l’avevano corteggiata ». Ma deve anche ammettere che, dopo il matrimonio, l’insistente corteggiamento di Luca fece sì che Ortensia si accendesse a poco a poco « allo stesso fuoco »; e anzi, essendo per temperamento meno stabile e sicura di lui, divenne « d’una sensibilità morbosa », avviandosi « a grandi passi verso l’isteria ».

Di qui la voce, diffusa tra la gente, che fosse impazzita e successivamente ricoverata in un manicomio. Andrea sente d’essere ormai ad un passo dalla verità. Non avendo trovato alcuna traccia di Ortensia nei registri del manicomio provínciale, si rivolge al segretario comunale di Cisterna e apprende che « la signora è morta l’anno scorso al monastero benedettino di Santa Chiara, sul colle di San Rufino ». Decide naturalmente di rivolgersi alla badessa di quel monastero per saperne di più, ma prima vuole accertare cos’altro gli nasconde don Serafino per aver accettato, d’accordo con Teresa e Ortensia, « che Luca si lasciasse passivamente condannare all’ergastolo ».
Incalzato con durezza dalle domande di Andrea, il vecchio prete finalmente confessa che Ortensia era stata sempre sana di mente e che la voce della pazzia fu messa di proposito in giro per « giustificare, senza scandalo per la tribù locale, il suo allontanamento dal marito ».

Fu lei stessa a suggerire una finzione qualsiasi, per non disonorare la casa che abbandonava liberamente: dopo la condanna di Luca e la sua dignitosa accettazione dell’ergastolo, aveva trascorso giorni penosi risolvendosi, ad t-in tratto, a ritirarsi in tiri monastero per il rimorso di « aver lasciato solo l’uomo che le aveva offerto la sua anima ». Tutti, parenti compresi, credettero che si fosse realmente svanita: « Così quelle che avevano accettato la condanna di Luca e la finzione del suo omicidio dovettero a loro volta subire la finzione della pazzia di Ortensía ». Come per aver un suggello a questa dolente verità, Andrea si precipita al monastero sul colle di San Rufino, distante pochi chilometri da Cisterna. Saputo che va a nome di don Serafino e che è nipote di una «generosa benefattrice » del monastero, la madre badessa si dispone a fargli qualche confidenza: Ortensia era rimasta sempre un’ospite del monastero, senza prendere i voti; il suo « cruccio permanente » riguardava la sorte di Luca quando sarebbe tornato, vecchio e inabile al laboro, in paese; tenne per lunghi anni « un diario intimo, che il confessore leggeva e censurava »; parte di quel diario, dopo la sua morte, doveva essere consegnata a Luca.
Ormai pago dell’inchiesta compiuta, anche se manca ancora un piccolo tassello da collocare nel cuore della straordinaria vicenda, Andrea Cipríani decide di tornare a Roma, dove lo chiamano urgenti doveri di partito.

Ed è a questo punto che Luca, intenerito dalla lettura delle pagine di Ortensía fattegli recapitare dalla badessa, si abbandona ad una lunga e pacata confessione mentre percorre col giovane amico il sentiero della collina che serviva d’accorciatoía per salire a Perticara. Alla vísta della casa di don Silvio, partito per il Brasile ormai da moltissimi anni, si lascia vincere dai ricordi offrendo inavvertitamente ad Andrea l’anello mancante per ricucire perfettamente la storia: la sera precedente al delitto, egli dice, prima di recarsi da Lauretta per fissare la data delle nozze, si vide con Ortensia e ne ebbe, con un abbraccio inatteso, una purissima prova di amore, che lo inondò di una gioia immensa, tramutatasi poi in un tale senso di smarrimento e colpevolezza per la povera fidanzata da essere indotto a dire parole sconnesse, interpretate successivamente dai giudici come un dato sicuro « di un rimorso anticipato dell’omicidio ancora da perpetrare ».

Lasciata quasi in fuga la casa di Lauretta, in preda alla disperazione pensò confusamente di uccidersi: si portò dapprima alla chiesetta costruita a picco sulla montagna di Perticara per gettarsi in quel burrone, ma vi trovò un mendicante che lo distolse dal proposito; se ne tornò a Cisterna intenzionato a buttarsi nelle acque del mulino, ma ne fu impedito dalla presenza del mugnaio. In realtà, egli non era più padrone di se stesso e quando, all’alba, si ritrovò tra due carabinieri, ebbe come un senso di sollievo: « L’arresto era stata una scappatoia fortunata, al posto del suicidio ». Sapeva di non poter far nulla « contro il destino, se non lasciare che si compisse ».