Una manciata di more


Nel 1949, discioltosi il Partito Socialista Unitario per difficoltà organizzative dopo appena un anno di vita, Ignazio Silone, che vi aveva aderito col gruppo della rivista « Europa Socialista » in sostegno degli ideali della « Terza forza », tornò a far parte « per se stesso », amaramente deluso. Si chiudeva così, in modo fallimentare non meno che la prima, la sua seconda esperienza di politica militante. Ecco come ne prendeva atto, in un discorso tenuto nel mese di luglio dello stesso anno:

« Avevamo l’illusione di poter rinnovare dal di dentro i partiti tradizionali, avevamo l’illusione di poter evitare nella lotta politica italiana la spartizione di due campi: uno sotto la protezione americana, l’altro sotto quella russa. Avevamo l’illusione che in questo dopoguerra la Chiesa potesse essere risparmiata e occupare una posizione diversa da quella tradizionale. Queste nostre speranze sono fallite [ … ]. Noi siamo certamente le persone più sconfitte della lotta politica italiana ». Nell’autunno dello stesso anno apparve, prima in edizione inglese e poi in italiano sulla rivista « Comunità », il racconto autobiografico Un’uscita di sicurezza, un esame retrospettivo dall’adolescenza « ribelle » alla giovinezza « rivoluzionaria », dalla lotta clandestina contro il fascismo fino alla crisi di coscienza e all’uscita dolorosa dal Partito Comunista. Il lavoro, stampato anche in opuscolo, ebbe una risonanza mondiale. Riletto a distanza, conserva tutto il vigore del pamphlet d’allora e guadagna in valenza morale come un dolente documento di vita. Oggi si potrebbe addírittura pensare che quella « uscita di sicurezza » venne a garantirlo non soltanto dall’ipoteca del P.C.I., ma anche da quella dei diversi Partiti Socialisti e d’ogni altra ideologia organizzata.

Recuperata la libertà dall’impegno della politica attiva, Silone poteva riprendere più alacremente il suo impegno di scrittore: basti pensare che in un decennio compose tre nuovi romanzi, i quali da un lato si possono riallaccíare al mondo della « ttilogía del l’esilio, dall’altro se ne distaccano e avviano un nuovo discorso sulla condizione dell’uomo e sugli sbocchi del suo destino.
Questo secondo momento dell’esperienza narrativa si apre con Una manciata di more, scritto nel 1950-51 e pubblicato nel, 1952 presso Mondadori, nella collana « La Medusa degli Italiani ». Concepito inizialmente col titolo La tromba di Lazzaro, esso ha ancora a protagonista la figura d’un intellettuale di sinistra insofferente delle parole d’ordine, l’insegnante Rocco de Donatis, intorno al quale ruota, come al solito, una folla di personaggi minori, con una massa di braccianti, contadini e pastori, che costituiscono lo sfondo corale della narrazione. Tradotto in dieci lingue tra il ’54 e il ’55, parzialmente riprodotto o segnalato su molti giornali e periodici della stampa mondiale, il libro ebbe in Italia un successo molto contrastato per alcuni durissimi interventi di critici appartenenti alle ali estreme del nostro schieramento politico.

 

LA TRAMA DEL ROMANZO

Siamo alla fine dell’ultima guerra mondiale, in terra marsicana. La lotta di Liberazione non si è ancora conclusa e Rocco de Donatis, che vi ha preso parte al Nord con grande passione nelle file del Partito Comunista, torna nel suo paese natìo, Fornace, come apprezzato esponente dell’antifascismo locale. I suoi rapporti col partito non sono più quelli d’un tempo, eppure ufficialmente egli ha fama d’esserne uno dei rappresentanti più rigidi e quotati. Non a caso viene incaricato di resprímere il Sovict del Casale, un gruppo separatista di fuorilegge e di sbandati capeggíato dal vecchio Zaccaria, sorto nella confusione degli ultimi giorni in un’antica cascina che dà il nome al luogo, « un importante valico e un incrocio di strade lontano da centri urbani ». La missione di Rocco al Casale, che il Governo intende premiare con medaglia d’argento al valor civile, dimostra a tutti che il Partito, « già ispirato dall’Oriente, si è ormai definitivamente inserito nella tradizione liberale e cristiana dell’Occidente ».

Eclissatosi per qualche tempo, Rocco torna a far visita al Casale e viene accolto con estrema freddezza da Zaccaria, non solo per la repressione del Soviet, ma anche per avergli portata via Stella, una ragazza diciassettenne arrivata lì ancora bambina alla vigilia della guerra col padre, un ebreo austriaco rifugiatosi in Italia per sfuggire alle persecuzioni razziste. Zaccaria comunque – così gli lascia intendere la moglie Giuditta – sarebbe disposto anche a perdonargli tutto, se si decidesse a sposare la ragazza e a trasferirsi con loro facendo « una speciale alleanza », dal momento che nel Partito gli va male ` come si vocifera in giro da quando ha avuto bisogno d’un certo periodo di riposo perché « afflitto da strane inquietudini, da problemi, da dubbi »,
Rocco, per la verità, ha perso da molto lo slancio e il fanatismo che tutti gli riconoscevano: rifiuta seccamente la decorazione per l’azione del Casale, disprezza i nuovi iscritti al Partito del tipo di Alfredo Esposito già arricchitosi col fascismo, non cerca e non vuole contatti con le autorità, fa saltare perfino un appuntamento col provveditore alle opere pubbliche per discutere della ricostruzione d’un ponte. Ma, nonostante ciò, egli non intende ritirarsi a vita privata; tutt’altro. Ma non pensa neppure di venire a patti con Zaccaria.
Conversando con Zaccaria egli apprende la singolarissima storia della famiglia Tarocchi e della selva, di Lazzaro e la sua tromba, di Martino il figlio del carbonaio, una storia che è all’origine delle « vergogne » che costrinsero il vecchio a stabilirsi appunto al Casale. Eccone, dunque, i particolari.

C’era, nei pressi di San Luca e Sant’Andrea, due piccoli villaggi della zona, una selva comunale, unica risorsa sicura di pascolo e legnatico per i poveri. Ebbene, la famiglia Tarocchi se ne impadronì « con un imbroglio », reclamandola come pegno d’un certo prestito fatto ai due Comuni. Ecco come Zaccaria ne riferisce a Rocce, in una pagina bellissima:
« Per apprezzare l’onestà dell’affare basterà dire che in quell’epoca i due comuni erano amministrati da alcuni familiari dei Tarocchi e che il valore della selva era enormemente superiore a quello delle cambiali protestate. Vi furono molti ricorsi della popolazione alle autorità superiori. Furono mandati telegrammi alla corte di Napoli, e più tardi anche al Governo di Roma. Tutto invano. La legge, si rispondeva, era dalla parte dei Tarocchi. L’operazione era stata formalmente ineccepibile. Fu anche iniziato un processo, che, di rinvio in rinvio, durò una trentina d’anni. Esso terminò come di solito, in quei tempi, i processi dei poveri contro i ricchi. Non fu difficile ai Tarocchi di comprarsi, di nascosto, gli stessi avvocati dei poveri.

Ma i poveri non si rassegnarono. Molti emigrarono in America; quelli che restarono continuarono a protestare. Parlando della selva essi dicevano la selva comunale, la nostra selva, la selva rubata. Se qualche volta perdevano la pazienza, c’erano i carabinieri che sparavano. Si capisce, i carabinieri dovevano fare rispettare la legge. E la legge era dalla parte dei Tarocchi. Il loro furto era stato riconosciuto formalmente ineccepibile. Sarebbe lungo adesso stare a ricordare i gravi incidenti accaduti, solo negli ultimi cinquant’anni, a causa di quella dannata selva. Bisogna udirli raccontare da Lazzaro. Tra gli anziani era quello che li ricordasse meglio. Aveva il suo motivo. A causa della selva, suo padre era finito all’ergastolo, dove poi morì. Egli uccise un carabiniere quando tentò d’arrestarlo per aver fatto abusivamente legna nella selva. – Era la mia parte – egli disse davanti ai giudici. – La parte che mi spettava. Naturalmente, tutti sapevano ch’eglí aveva ragione. Anche i giudici: soprattutto i giudici, lo sapevano. Ma era la ragione d’un povero. Una ragione che non contava ».

Col tempo i Tarocchi divennero non solo i più ricchi della valle, ma anche i più odiati, al punto che uno di essi fu strangolato sulla soglia di casa da un contadino che non voleva pagare la multa per il pascolo abusivo d’un maialino: « La povera gente si domandava: – Perché le ghiande delle querce devono marcire per terra? – Ma era un ragionamento da poveri ». Si spiega così perché i Tarocchi tremassero appena vedevano la piazza di San Luca o di Sant’Andrea gremita di cafoni. Cercarono di ricorrere ai ripari facendo sciogliere la Lega dei contadini, ma valse a ben poco, perché i contadini continuarono a riunirsi in piazza ogni volta che Lazzaro dava il segnale con la sua tromba. Le autorità decisero allora di sequestrare quel rozzo strumento e, non riuscendovi, allontanarono Lazzaro dalla valle: « Fu portato con la forza al capoluogo e gli fu comandato di non rimettere più piede nella nostra contrada. Fu il primo di queste parti a essere bandito. Poi dovette scappare Mattino ».
Martíno, il figlio del carbonaio che lavorava alle dipendenze di don Vincenzo Tarocchi, cresciuto nella più nera miseria, ebbe il coraggio di far fronte, in pubblico, all’arroganza del padrone che chiedeva informazioni sul nascondiglio della tromba di Lazzaro.

Il gesto gli costò molto caro: per sfuggire alla fame e all’arresto, dovette espatriare. Tornerà vent’anni dopo, a sei mesi circa dalla Liberazione, con l’intenzione di vendicarsi dei torti subiti. A tale scopo s’incontra subito con Rocco, il quale lo accompagna con la sua jeep fin sul valico della montagna, nei pressi del caseificio di Don Vincenzo Tarocchi. Ma dopo una lunga attesa, decidono di tornare in paese e di recarsi da Lazzaro. Lazzaro, infatti, era già da un anno a San Luca: vissuto clandestinamente in un convento, come giardiniere dei frati, era riapparso all’improvviso la sera dopo la caduta del fascismo, accolto festosamente nella cantina di Massimiliano il pecoraio, dove s’era dato convegno un gruppo di pastori e contadini. Con lui e con Martino, che più d’ogni altro avevano pagato di persona, Rocco stringe rapporti d’intima amicizia.

Intanto da Roma giunge un commissario del Partito, un certo Oscar, che i compagni del carcere di Civitavecchia avevano a suo tempo ribattezzato il Mulo Bendato « per il suo carattere chiuso settario testardo ». Scopo della sua missione è quello di interrogare Rocco su varie questioní, soprattutto in riferimento all’ultímo viaggio in Russia e all’incontro con una ragazza di Varsavía. Benché i due si conoscano da venti anni, l’incontro si svolge in modo « glaciale e penoso », con aria « in_ quisitoriale », e s’interrompe bruscamente perché un giovane sconosciuto fa sapere a Rocco che Martino « è in pericolo ». Prima di ripartire per Roma, Oscar vorrebbe conoscere Lazzaro e convincerlo a mettere la sua tromba al servizio del Partito: « Sarebbe un colpo formidabile. Un atto nuovo, originalissimo. Un esempio dello spirito creativo delle masse ». A tale scopo si reca con Alfredo nel víllaggio di Sant’Andrea e insieme s’imbattono in Massimiliano, il quale, per essere « il più antico e fedele compagno di Lazzaro », saputo lo scopo della visita, con tono indignato fa osservare che Lazzaro « non è banditore, né un campanaro », ma un contadino, « uomo di terra e di chiesa » e che la sua tromba serve solo per adunanze straordinarie: « Se c’è qualcosa che rivolta lo stomaco di tutti, e se tutti tacciono impauriti. Era un modo di chiamarsi, di stare assieme, di farsi coraggio ».

La missione di Oscar, pertanto, si conclude così con un fallimento totale: Rocco non intende recedere dai suoi dubbi e dalle sue critiche e così la rottura col Partito appare inevitabile. Rottura dolorosa, cui s’accompagna la separazione da Stella, improvvisa e confusa « come una disgrazia ». Stella, per la verità, aveva tentato in ogni modo di farlo rimanere nel Partito, sostenendo che esso « è la storia in marcia »; ma Rocco diveniva sempre più « triste e taciturno ». La sua crisi era scoppiata, all’improvvíso, da pochi mesi: tornando da Mosca, in una sosta a Varsavia, una ragazza ebrea conosciuta una quindicina d’anni prima a Torino, che aveva lasciato gli studi di medicina per servire fedelmente il Partito, gli si presentò in condizioni pietose e gli raccontò tutta la sua terrificante « via crucis » finita col domicilio coatto. Rocco ne rimase sconvolto, benché già al corrente di altre storie consimili. Al turbamento venne via via subentrando la persuasione « che gli era moralmente impossibile rimanere in un partito complice di tanti orrori ».

Ma le cose si complicano anche per Stella: separatasi da Rocco per restare fedele al Partito, ad un certo punto scompare senza lasciare tracce di sé. Rocco ne impazzisce dal dolore: con la sua jeep fa ripetutamente il giro della valle, sale sii fino al Casale temendo perfino una ignobile vendetta di Zaccaría, ma altro non riesce a sapere che Stella ha lasciato anche lei il Partito e che, dopo una breve lontananza, deve essersi rifugiata nei dintorni. Decide allora di affidarne le ricerche ai carabinieri e così si accerta che si trova « in una buona casa privata », spaventata e avvilita per quanto le è successo: specialisti del Partito ne avevano perquisito l’appartamento e, trovati dei documenti riportati da Rocco dalla Polonia sul lavoro forzato in Russia, l’avevano sottoposta a continui tentativi d’intimidazione e tortura morale, fino a costringerla all’isolamento; di qui l’abbandono del Partito e la disperazione, per cui a lungo ha rifiutato perfino di cibarsi, decisa a morire d’inedia.
E in verità, don Nicola, il curato di San Luca, amico e compagno di studi di Rocco, trova un giorno Stella « sola a letto, in uno stato che sembrava già di agonia ». S’immagini la sua sorpresa e la sua tristezza, dal momento che egli ignorava tutte le ultime disavventure di Rocco e della ragazza.

Egli sperava di rivedere l’amico carissimo, che sapeva da qualche tempo in crisi, e recargli una parola di conforto e di sprone, per convincerlo a fare qualcosa che desse « al suo passato un senso piuttosto che un altro ». In un ennesimo diverbio con la sorella Adele, il povero curato s’era affannato inutilmente a spiegare che il cattolicesimo non è soltanto catechismo, ma anche carità; che lo « scandalo » della ragazza non battezzata e concubina andava affrontato senza forzarne la coscienza, soprattutto per il rispetto dovuto al suo stato di orfana e alla tragedia del suo popolo. Ed ora eccolo, incredulo ai propri occhi, di fronte ad una realtà altrettanto amara quanto imprevedibile: dimentica il vescovo, gli esercizi spirituali cui era stato
chiamato, ogni altro dovere, e finisce « col persuadersi che Stella era stato l’unico e vero scopo del suo viaggio », cui non poteva essere estranea la volontà di Dio.

Decide di fermarsi e prestare alla ragazza le cure necessarie, benché abbia il timore di sfiorare i « limiti dell’eresía e dell’indisciplina ». Del resto, aveva promesso di rispettarla e amarla quando, un brutto giorno d’un inverno lontano, era stato chiamato al capezzale del padre morente, il signor Stern, al Casale. Quel ricordo ora lo assale prepotente: la prima nevicata, il suo rifiuto di assistenza ad un ebreo, le minacce di Zaccaria, la bambina che leggeva un passo della Bibbia, le parole dette sulla « comune figliolanza degli uomini ». Ci vogliono dei giorni perché Stella possa riaversi lentamente. Don Nicola vorrebbe informarne Rocco, non per ristabilire il disciolto concubinato, ma perché lo aiuti a proteggere la ragazza economicamente e soprattutto moralmente, poiché essa è a terra come sconfitta e si sente responsabile addirittura di tradimento.

Ma come e in che senso può, lei, aver tradito Rocco? E’ la stessa ragazza a raccontargli la sua storia penosa. Era accaduto Che, il giorno della rottura coraggiosa di Rocco, Stella disse ad Oscar che si sarebbe impegnata a chiarire alcuni malíntesi e a farlo riammettere nel Partito. Ma le cose presero poi una piega ben diversa. Fu invitato un altro funzionario della Direzione centrale, un certo Ruggero, con l’incarico di esaminare i libri e i documenti che Rocco aveva lasciato nell’appartamentino abitato da Stella: fu così scoperto che il suo « libertinaggio intellettuale » aveva raggiunto « forme oltraggiose » con la lettura di testi di Zinovieff, Bukarin, Trotzski, Victor Serge, Tasca, proibiti dalla Commissione dell’Indice del Partito; inoltre, nei suoi diari si rivelava « un uomo tormentato, un individualista », non più credente « nel marxismo ma in Dio », propagatore di idee false sui campi di concentramento in Russia, affetto da pietismo píccolo-borghese per la madre d’un giovane fucilato senza giustificato motivo nella lotta di Liberazione.

Stella cercò di controbattere i rilievi di « un individuo così duro e malfido », ma senza approdare a nulla. Anzi, a conclusione dell’inchiesta, si ritrovò tra le mani un bollettino del Partito con due articoli in prima pagina che dicevano: « Le prove del tradimento del rinnegato Rocco De Donatis » e « Ammissioni e denunzíe della compagna Stella . Si sentì come pietrificata: ebbe solo la forza di strappare il foglio e fuggire via, in preda ad un totale smarrimento.
Rimessasi dal suo malanno ma non ancora guarita, Stella trascorre una lunga convalescenza in casa di don Raffaele, il maestro di San Luca che l’aveva istruita da bambina. Vanno spesso a trovarla Giuditta, moglie di Zaccaria, e lo stesso Rocco, che si è deciso finalmente a sposarla. Ma nel frattempo l’irgegnere ha avuto modo di uscire dalla sua solitudine, per appoggiare un movimento di braccianti sorto spontaneamente a San Luca, a Sant’Andrea e alla Fornace, per l’occupazione dei prati del fondovalle, proprietà della famiglia Tarocchi: « Erano vasti e accidentati terreni incolti, ai due fianchi del torrente, nei quali d’estate pascolavano pecore e capre. Tra i braccianti che rivendicavano una parcella di quei prati per dissodarla e coltivarvi fave e patate, erano numerosi i reduci senza lavoro.

Il sussidio per disoccupazione che ricevevano dal comune ‘ ne serviva appena per il pane. Alcuni rimpiangevano la prigionia, con la minestra assicurata. Si era così riprodotto nei tre villaggi uno stato d’eccítazione, che ricordava gli antichi tumulti, le proteste, i processi per la selva ». Torna finalmente a suonare la tromba di Lazzaro. Anche Martino si dà da fare, per sobillare la popolazione. Don Vincenzo Tarocchi pensa di correre ai ripari offrendo una parte dei terreni ad alcuni iscritti del Partito, ma Rocco riesce a far saltare l’accordo non appena si avvede « che i braccianti più poveri, i più bisognosi sarebbero esclusi ». Don Vincenzo e il Partito, naturalmente, non sopportano che « quel pazzo » abbia « mandato tutto per aria » e vorrebbero trovare un modo qualsiasi per liberarsene, infangandolo come un traditore della classe operaia e accusai-idolo addirittura dell’assassinio di Bonifazio, il giovane ucciso erroneamente dalla formazione partigiana ch’era al suo comando.

La situazione momentaneamente si blocca con una sorta di « armistizio » concluso dai braccianti con la Prefettura: alle autorità si concede una settimana di tempo, per procedere alla espropriazione legale dei prati. Rocco ne è felice e dice a Stella di voler approfittare di quella pausa dell’agitazione per sposarsi: ha già pronta l’abitazione e lo zio canonico sarebbe ben lieto di celebrare il rito di nozze.

Passata la settimana senza l’esito sperato, le agitazioni riprendono con più determinazione in tutta la valle; per forzare i tempi, si decide di occupare con la forza il latifondo. Alla vista dei braccianti capeggiati da Martino, il fattore dei Tarocchi reagisce violentemente e viene ucciso. Del delitto viene accusato lo stesso Martino: pur essendo innocente, per sfuggire all’arresto, egli è costretto a fuggire e nascondersi. Le autorità e il Partito approfittano del momento favorevole per sbarazzarsi delle altre due presenze incomode: quella di Lazzaro, a causa della sua tromba, che si tenterà ancora inutilmente di sequestrare; e quella di Rocco, principale responsabile di tutto il fermento di rivolta e particolarmente inviso ai vecchi non meno che ai nuovi padroni del potere locale.

Testi del prof. Vittoriano Eposito