Fontamara


La prima opera, a cui tuttora la fama di Silone è legata in misura maggiore, dentro e fuori dall’Italia, fu scritta nel 1930 a Davos, in Svizzera, e s’intitola Fontamara: nome immaginario di un piccolo villaggio di montagna, derivato da Fonte amara, carico di significati allusivi per le vicende che vi si svolgono, in gran parte originate dalla incredibile contesa per un ruscello di acqua che è ragione di vita per la povera comunità che vi abita e che pertanto può assurgere a dolente metafora di una lotta disperata per la sopravvivenza.

Nella prefazione del libro, ritenuta giustamente la prima fondamentale testimonianza della poetica siloniana, l’autore afferma di aver dato « questo nome a un antico e oscuro luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato lago di Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra le colline e la montagna ». E, quasi a voler sottolineare il nesso per lui indissolubile tra invenzione fantastica e realtà storica, oltre che la proiezione universale degli « strani fatti » accaduti nel corso di un’estate, aggiunge:

« Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin, i coolis, i peones, i mugic, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé, razza a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici ».

Siamo, dunque, in un villaggio di contadini poveri, che nel gergo locale si chiamano cafoni: abitano in « un centinaio di casucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d’ogni sorta ». Vi fanno spicco « una decina di case di piccoli proprietari e un antico palazzo ora di sabitato, quasi cadente ». Vi sono poi degli artigiani, anch’essi divisi in due gruppi: i meno poveri, che anno almeno « una botteguccia », e quelli che non hanno nulla. Si capisce perché la condizione generale è quasi sub-umana: ci si batte notte e giorno per i bisogni primari, per vincere « la miseria ricevuta dai padri, che l’avevano ereditata dai nonni, e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito a niente ». Le poche terre di collina non bastano neppure a sfamare la gente: scarsamente produttive da sempre, esse lo sono diventate ancor meno in seguito al prosciugamento del lago sottostante, giacché l’abbassamento della temperatura ha comportato la scomparsa degli uliveti e, in parte, dei vigneti. E tuttavia, all’infuori d’un campicello, non c’è altro scampo dalla fame e dai debiti:

« L’oscura vicenda dei Fontamaresi è una monotona via crucis di cafoni affamati di terra che per generazioni e generazioni sudano sangue dall’alba al tramonto per ingrandire un minuscolo sterile podere, e non ci riescono; ma la sorte dei Torlognes è stata proprio il contrario. Nessuno dei Torlognes ha mai toccato la terra, neppure per svago, e di terra ne possiedono adesso estensioni sterminate, un pingue regno di molte diecine di migliaia di ettari ».
Senza i Torlognes, cioè i Torlonia, banchieri di origine francese divenuti potentissimí feudatari a seguito di speculazioni sulla guerra e sulla pace e insigniti per questo del titolo di duchi e poi di principi dalla monarchia sabauda e tenuti finalmente in somma considerazione da Mussolini e dal fascismo, mancherebbe l’anello più prestigioso della catena degli « strani fatti » che si raccontano nel romanzo. Si tratta di fatti che l’autore immagina avvenuti qualche anno dopo l’avvento del fascismo al potere, e che sconvolsero la vita di Fontamara « stagnante da tempi immemorabili ».

 
LA TRAMA DEL ROMANZO

Il primo giugno di un anno imprecisato, ma presumibilmente del 1929, Fontamara restò al buio: venne sospesa l’erogazìone dell’energia elettrica, perché da molti mesi nessuno più pagava le relative bollette a causa delle crescenti difficoltà economiche, Quella stessa sera giunse un forestiero, un certo cav. Pelino, a raccogliere le firme per una « petizione »: nella cantina di Marietta si radunò un gruppo di contadini che tornava dal lavoro e dopo tante insistenze, senza aver capito di che si trattasse, ma rassicurati che non c’erano tasse da pagare, declinarono il proprio nome e quelli di tutti i fontamaresi.

L’indomani, all’alba, avvenne un altro fatto assai strano: alcuni cantonieri, venuti da Fossa, con pale e picconi, si misero alacremente al lavoro per deviare l’acqua del ruscello, che aveva sempre irrigato i campi e gli orti sulle pendici della montagna di Fontamara, verso il podere d’un ricco proprietario del capoluogo, don Carlo Magna. Le donne del paese, fatte avvertire da un ragazzo che a quell’ora scendeva al piano con gli uomini per le varie occupazioni stagionali, dopo un rapido consultarsi decisero di recarsi al Comune e chiedere l’intervento dell’autorità nella persona del sindaco. Fu per loro una brutta avventura: il sindaco non c’era più, al suo posto c’era ormai un podestà, un forestiero venuto da Roma e soprannominato, per il suo fiuto degli affari, l’Impresario; aveva cominciato da piccolo commerciante e in tre anni appena, con l’aiuto d’una banca, era diventato il più ricco e potente del capologuo.

Era lui il nuovo proprietario delle terre di don Carlo Magna: era lui, dunque, che aveva deciso di far deviare le acque del ruscello e per questo aveva ordito il tranello della « petizione » come libero assenso dei fontamaresi. Dopo ore e ore di cammino, di ricerche, di insistenza, un penoso andirivieni tra il Comune, la casa di don Carla Magna e la villa dell’Impresario, le povere donne, impolverate e scarmiglíate, prese dalla disperazione, tentarono un assalto alla villa, dove si erano riuniti a banchetto i notabili della città, tra i quali l’ex sindaco don Circostanza, detto « l’amico del popolo »; e con la mediazione di quest’ultimo giunsero ad un accordo, secondo cui si lasciavano al podestà i tre quarti dell’acqua e ai fontamaresi i tre quarti dell’acqua rimanente: « Così gli uni e gli altri avranno tre quarti, cioè, un po’ di più della metà », concluse don Circostanza, dando poi a intendere che la sua proposta danneggiava enormemente il podestà. Alla beffa si conferì una parvenza di legalità con una dichiarazione buttata giù sull’istante dal notaio e sottoscritta dall’impresario, dal segretario comunale e da don Circostanza « come rappresentante del popolo fontamarese ».

Seguirono giorni di preoccupazioni e discussioni in ogni famiglia di Fontamara: erano tutti più o meno persuasi d’essere vittime d’un imbroglio, ma non sapevano esattamente « di che specie »; ed essendo analfabeti (sapevano scrivere solo il proprio nome per « merito » di don Circostanza), avevano bisogno di spiegazioni, « ma diffidavano dal ricorrete a qualche persona istruita, per non aggiungere altre spese all’inganno ». A placare i-in po’ gli animi giunse una sera perfino don Abbacchio, canonico del capoluogo, con una biga dello stesso Impresario; ad accenderli, al contrario, provvedeva Berardo Viola, il quale, ridotto allo stato inferiore di bracciante per un concorso di avverse circostanze, era del parere che con le autorità si perdesse tempo a voler discutere e che pertanto bisognasse farsi giustizia da sé: l’Impresario – diceva – ha rubato l’acqua? Lo si costringa a restituirla con la forza, distruggendogli la conceria, la legnaía, la fornace, la villa. Agli altri le idee di Berardo apparivano piuttosto « assurde e violente », ma che egli fosse l’unico a ragionare fin troppo nel villaggio dovette riconoscerlo lo stesso cursore comunale, Innocenzo La Legge, il giorno in cui per ordine del podestà si recò ad affiggere nella cantina di Marietta un cartello con la scritta In questo locale è proibito parlare di politica e Berardo lo convinse a sostituirlo con un altro che diceva: Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti.

Verso la fine di giugno, si sparse la notizia che ad Avezzano ci sarebbe stata una grande manifestazione indetta dal nuovo Governo sulla « questione del Fucíno », cioè sul rinnovo dei contratti agli affittuari del feudo di Torlonia. Una domenica mattina, con un camion guidato da un milite fascista, un gruppetto di fontamaresi con a capo Berardo Viola si recò ad Avezzano: era grande la loro eccitazione al pensiero che « quel giorno stesso stava per aver luogo la nuova spartizione del Fucino » e che finalmente anche Fontamara, benché non fosse un paese ripuario del Fucino, avrebbe avuto la sua parte, Invitati a portare con sé il gagliardetto del partito, non sapendo neppure che cosa fosse, per non « far brutta figura di fronte al nuovo Governo » in una occasione così importante per loro, pensarono di portare lo stendardo di S. Rocco, patrono del paese. Ma proprio a causa dello stendardo, essi ebbero un violento scontro, alle porte di Avezzano, con alcuni fascistí che volevano sequestrarlo: lo cedettero solo all’arrivo dei carabinieri e per esortazione di don Abbacchio, il quale si mise perfino a inveire perché con le loro « provocazioni e chiassate » compromettevano « l’accordo tra il Clero e le Autorità ». Giunti ad una grande piazza, assistettero alla sfilata delle varie autorità, sollecitati ogni tanto ad alzarsi in piedi e a gridare evviva. Verso le due la manifestazione fu sciolta, senza che si sapesse nulla della « questione ». Delusi e amareggiati, si precipitarono verso un palazzo per parlare al ministro: sulla porta vi trovarono don Circostanza, il quale cercò di calmarli spiegando che le terre del Fucino venivano assegnate a chi poteva coltivarle o farle coltivare, cioè ai contadini ricchi. Presi da scoramento, si diressero verso il camion per ripartire, ma si era fatto tardi e il camion non c’era più.

Rimasti soli e sbandati come pecore senza padrone, finirono per accompagnarsi ad un signore che per una via appartata li condusse in una osteria: si qualificò per « un nemico del Governo », ma era invece un poliziotto. Messi sull’avviso da un giovane sconosciuto che li aveva seguiti, non appena il provocatore si fu allontanato, decisero di ripartire prendendo la via dei campi. Giunsero a Fontamara verso mezzanotte « assetati, affamati e col fiele nell’aníma ». All’alba erano di nuovo in piedi, « perché era cominciata la mietitura ». Ma dovevano accadere altri « fatti strani » quell’estate.

Un giorno, tra l’incredulità di tutti, il Comune decise di far costruire una staccionata di legno ad un pezzo di tratturo, fascia di suolo pubblico adibito da secoli al transito delle greggi, di cui l’Impresario si era arbitrariamente ímpossessato. I cafoni fecero mille rimostranze e discussioni, ma senza utili risultati. Una notte la staccionata andò in fiamme. Fu prontamente ricostruita, ma nuovamente distrutta dall’incendio. Il responsabile non venne scoperto, ma tutti sapevano che altri non poteva essere che Berardo Viola. Sembrava che l’Impresario avesse appresa la lezione, eppur doveva ancora dimostrare di meritare la fama di diabolico che si era conquistato. Una sera, sull’ímbrunire, quando gli uomini ancora non tornavano dai campi, Fontamara si ebbe la sua « spedizione punitiva »: decine di squadre fasciste, raccolte tra la gente più oziosa e infida della contrada, terrorizzarono con spari stupri e violenze d’ogni genere tutta una inerme popolazione di bambini, donne e vecchi. Fu « una cosa mai vista, mai, mai », commentò Baldissera, che « fino allora sempre aveva trovato un raffronto nelle storie del passato », anche per i fatti più gravi.

Di lì a qualche giorno, il podestà fece intervenire un centinaio di carabinieri e due gruppi di militi fascisti, accompagnati da tutta l’« onorata società » del capoluogo. Con grande angoscia i fontamaresi, dopo alterchi e tentativi di tafferugli, dovettero arrendersi alla legale applicazíone dell’accordo, che lasciò loro niente più che un rigagnolo. Per sedare il tumulto, don Circostanza ricorse ad un’altra sua diavoleria: propose che si stabilisse un termine, oltre il quale tutta l’acqua del ruscello doveva tornare a Fontamara. L’accordo fu trovato sulla durati di « dieci lustri », suggerita appunto dall’Amico del Popolo; ma nessuno dei fontamaresi « sapeva quanti mesi o quanti anni facessero dieci lustri ». E così un’altra beffa fu perpetrata a loro danno.

Con l’avanzate della calura estiva, mentre le tenere colture bruciavano inesorabilmente per mancanza d’irrigazione, a Fontamara s’ingígantíva lo spettro della fame per il prossimo inverno. La disperazione cresceva giorno per giorno, con odio reciproco: nella miseria si moltíplicavano le occasioni di litigio tra i cafoni. L’unico a tacere era Berardo Viola: dalla sera della spedizione fascista « non era più lui », non per viltà, ma perché finalmente deciso a pensare ai fatti suoi. Avendo trascorso, infatti, quella sera e la notte successiva in casa di Elvira, la sua ragazza, quasi a volerla custodire gelosamente, l’aveva compromessa all’occhio di tutti e pertanto doveva sposarla ad ogni costo. Ridottosi a far vita di solitario, aveva ormai una idea fissa: « emigrare, andare via, lavorare come una bestia, lavorare il doppio degli altri; e dopo sei mesi, o dopo un anno, tornare a Fontamara, comprare un pezzo di terra, sposarsi ».

Avute in prestito cento lire da Giuvà, a condizione che portasse con sé anche il figlio, Berardo lasciò Fontamara: non lo fermarono le parole di Scarpone, intese a dimostrargli che tutto il paese ormai aveva finito col pensare come lui un tempo; né le parole di Elvira, che gli confidò di aver cominciato a volerglí bene quando le raccontarono che egli ragionava nel modo contrario; né la notizia che Teofilo si era impiccato con la fune del campanile, per disperazione di quanto stava accadendo.

Giunti a Roma, Berardo e il suo giovane amico presero alloggio nella locanda del Buon Ladrone. L’indomani si presentarono all’ufficio io che, stando alle promesse di don Circostanza e d’un commesso viaggiatore romano conosciuto nel suo studio, avrebbe dovuto mandarli a lavorare in una zona di bonifica; ma fu la prima stazione di una lunga « via crucis » che continuò per una settimana e oltre, giorni peti-osi durante i quali furono sballottati da un ufficio all’altro, senza concludere nulla Inutile fu anche l’incontro con don Achille Pazienza, un vecchio avvocato abruzzese che moriva letteralmente di fame nella stessa locanda e che li ripulì degli ultimi spiccioli. Fu tutta una catena di sorprese amare: bisognò soprattutto mettersi in regola con la tessera del partito e richiedere documenti al paese d’origine. Ma con i documenti giunse anche un certificato del podestà che attestava, sul conto di Berardo, una « condotta pessima dal punto di vista nazionale », per cui non solo era impossibile ottenere per loro un posto di lavoro, ma venivano anche ricercati dalla polizia.

Furono perciò sbattuti fuori dalla locanda, affamati e senza un soldo in tasca. Arrivati a stento nei pressi della stazione ferroviaria, mentre notavano la presenza d’un gran numero di carabinieri e di militi che fermavano e perquisivano i passanti, si sentirono salutare: era il giovane sconosciuto che, ad Avezzano, mise in guardia i fontamaresi dal poliziotto che aveva cercato di carpire dichiarazioni antifasciste. Il figlio di Giuvà non perse tempo a dite che non si reggevano in piedi dalla fame e così il giovane li accompagnò in una vicina osteria, dove ordinò per loro uova e prosciutto: mentre mangiavano il giovane li informò che carabinieri e militi stavano dando la caccia al Solito Sconosciuto, un sovversivo che diffondeva stampa clandestina mettendo in pericolo l’ordine pubblico, stando al parere delle autorità. Non era passato molto tempo quando entrarono alcuni militi per la perquisizione e, trovato un pacchetto ai piedi dell’attaccapanni, insospettiti li trascinarono nella sede della polizia. Rinchiusi nella stessa cella, Berardo e il giovane trascorsero tutta la notte a discutere di cittadini, di cafoni, di libertà, di lavoro: pur tra obíezioní e resistenze, Berardo finì per stringere amicizia col giovane sconosciuto e per accettare le sue idee sulla necessità della rivolta contro il fascismo. La mattina seguente, di fronte al commissario, Berardo fece una dichiarazione che lasciò senza fiato il giovane avezzanese e il figlio di Giuvà: « Il pacco di stampa clandestina – disse – trovato nella latteria vicino alla stazione mi appartiene.

Quei fogli sono io che li ho fatti stampare. Il Solito Sconosciuto sono io ». Berardo, dunque, si autoaccusava di fatti non commessi: egli non solo « era tornato il vecchio Berardo », ma aveva acquisito una coscienza nuova, dando una veste a suo modo razionale a quello che era sempre stato un istinto naturale di ribellione alle ingiustizie. La cosa, ovviamente, non finì così. L’arresto del fantomatíco Sconoscíuto, che era sempre riuscito a sfuggire alla polizia, suscitò molto scalpore. Il giorno dopo il giovane avezzanese fu rimesso in libertà, mentre per Berardo cominciarono gli interrogatori, per scoprire dove fosse la tipografia, chi fosse il tipografo, i nomi dei complici. Berardo
non aprì bocca, neppure quando il suo corpo fu ridotto ad una piaga sanguinante. Ma quando seppe che l’avezzanese era stato liberato, decise di dire la verità; senonché, alla vista d’un giornaletto fresco di stampa che ínneggiava a grandi caratteri al suo nome e che raccontava del suo arresto, dei fatti di Fontamara e della morte di una certa Elvíra, non seppe dire altro che ormai preferiva morire e si rinchiuse nel suo mutismo. Stremato dalle torture, ebbe tuttavia più volte ancora la tentazione di cedere e confessare tutto; ma, dopo un lungo contrasto di dubbi e pentimenti, decise di finirla per sempre, consapevole d’essere « il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri ».

Passarono altri giorni e una mattina il corpo di Berardo fu fatto trovare appeso all’inferriata della sua cella d’isolamento. Dal verbale di polizia che fu redatto con palese falsità, non era difficile capire che egli era stato ammazzato: il figlio di Giuvà ne pianse desolato e, coinvolto come testimone, ne sottoscrisse la dichiarazione di morte per tornarsene finalmente a Fontamara.
A Fontamara le cose erano state già riferite in gran parte dal Solito Sconosciuto e si era deciso di passare dallo sdegno segreto alla pubblica riprovazione di tutto quanto era accaduto negli ultimi mesi: col materiale apprestato dal giovane Sconosciuto si ricavò un giornaletto dal titolo Che fare? Doveva essere un vero e proprio foglio di battaglia, il segno della propria riscossa: « il giornale dei cafoni, anzi, il primo giornale dei cafoni ». Gli argomenti da trattare erano dolorosamente vivi: « Hanno ammazzato Berardo Viola, che fare? »; « Ci han tolta l’acqua, che fare? »; « 11 prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, che fare? ».

Il giornale rappresentava indubbiamente il primo gradino della maturazione politica di un’intera comunità, il primo passo verso una effettiva presa di coscienza della realtà sociale d’un piccolo villaggio nei suoi rapporti con il Governo e con lo Stato in generale. Se ne stamparono cinquecento copie, per diffonderle anche nei villaggi vicini. Intorno al gruppo dei promotori, capeggiato da Scarpone, s’era creato un clima di fermento ideale, quasi di attesa fiduciosa: ma la speranza d’un rinnovamento era destinata a restare una bella utopia, almeno per il momento. La sera stessa, infatti, Fontamara fu assalita nuovamente dalle squadre fasciste e sottoposta ad una punizione severissima, con morti e saccheggi. Tra gli scampati ci furono anche Giuvà, Matalè e il loro figliuolo, i quali, con l’aiuto del Solito Sconosciuto, riuscirono a riparare in Svizzera. Sono essi appunto che raccontano, nella finzione letteraria, gli strani fatti di quell’estate, che l’autore si limita a tradurre letteralmente dal dialetto in italiano, con la maggiore fedeltà possibile.

Vittoriano Esposito