
L’avventura di un povero cristiano
Scritta nel 1966-67, L’avventura d’un povero cristiano, destinata a consacrare definitivamente quella sorta di riconciliazione tra Silone e la critica italiana che si era avviata stentatamente negli anni ’50, apparve nel marzo del 1968, nella collana « Narratori italiani » di Mondadori, quasi che l’editore ne volesse sollecitare una interpretazione saggistico-narrati va più che drammatico-teatrale.
Preso nel suo insieme, il libro era e resta di difficile collocazione quanto al genere letterario, essendo composto di due parti tra sé totalmente diverse: la prima, che utilizza anche delle pagine già edíte, vuol essere una introduzione al dramma di Celestino V, ma in realtà è un vero e proprio saggio-racconto in cui Silone riesce a disegnare un’autobiografia interiore rivolta insistentemente a far rimarcare i propri connotati di « cristiano post-risorgimentale e post-marxista », escludendo nettamente la qualifica di cattolico; la seconda parte comprende il testo del dramma, che ha appunto per soggetto l’avventura di quel povero cristiano che si sente d’essere Pietro Angelerio, l’eremita del Morrone costretto per pochi mesi a lasciare la pace delle montagne abruzzesi per essere eletto papa e conoscere, così, gli intrighi della curia sotto la soffocante pressione del cardinale Caetani, l’ultimo irriducibile assertore della teocrazía medievale. Vi è, infine, un’appendice di Note sui personaggi storici del dramma, stese sulla scorta di studi specialistici e documenti d’archivio.
Pur nella difficoltà di trovare una definizione accettabile per tutti (si giudicò, a volta a volta, un dramma sacro, un romanzosaggio, un racconto dialogato e altro ancora), il libro riscosse – anche se tra immancabili riserve – un vero coro di consensi, ove si prescinda dal persistente silenzio di parte comunista. Gli furono Assegnati due Premi letterari: nel maggio del ’68 il « Moretti d’oro » e, nel settembre, il « Super-Campiello”». Le edizioni si susseguirono con un ritmo incessante.
Successo non minore ottenne l’opera quando, successivamente, fu trasferita sulle scene: nel ’69 a San Miniato, a cura dell’Istituto del Dramma Popolare e per la regia di Valerio Zurlíni; poi, nel ’70-71, nei maggiori teatri italiani, per un centinaio di repliche. Numerose le traduzioni e rappresentazioni all’estero (Ungheria, Svizzera, Germania, Francia, Argentina, Inghilterra, ecc.), dove riscosse molti consensi di pubblico e di critica. Alto l’indice di gradimento e di ascolto nell’allestimento televisivo curato qualche anno dopo, esattamente nel 1974, da Ottavio Spadaro.
INTRODUZIONE
L’opera, come si è detto si apre con un’ampia introduzione che s’intitola Quel che rimane ed è articolata in quattro capitoli: Inizio di una ricerca, Sulle tracce di Celestino, L’eredità cristiana, Ouel che rimane.
Il racconto prende le mosse da una visita alla biblioteca provinciale dell’Aquila per rintracciare documenti riguardanti la figura e la storia di Celestino V. Essendo appena all’inizio della sua ricerca, l’autore non sa ancora se ricavarne un romanzo, un saggio o un dramma. Ad un amico che, informato del progetto, lo ricollega a Ed egli si nascose, fa osservare che non ha torto perché « tra il nuovo lavoro e i precedenti non vi sarà salto o rottura ».
Del resto, egli ha sempre avuto la convinzione che se uno scrittore « mette tutto se stesso nel lavoro [ … ] la sua opera non può non costituire un unico libro ». E deve esser chiaro che a lui, Silone, interessa ormai da gran tempo « la sorte d’un certo tipo di uomo, d’un certo tipo di cristiano, nell’ingranaggio del mondo », tanto che non saprebbe scrivere d’altro. Di qui l’isolamento in cui egli è venuto a trovarsi come uomo e come scrittore: egli infatti si considera, tanto nella ideologia quanto nella sensibilità, « post-risorgimentale e forse anche post-marxísta ».
Il capitoletto si chiude con delle notizie sulla basilica di S. Maria di Collemaggío, in cui l’eremita fra Pietro Angelerio del Morrone, nell’agosto del 1294, « venne coronato pontefice alla presenza di cardinali, vescovi, principi e d’un immenso popolo in giubilo »,, e con un fugacissimo incontro dell’autore col portiere del manicomio, detto anch’esso di Collemaggío, un rude vecchietto che si scopre essere un suo lontano compagno delle scuole elementari e 9 li confida che da molto si aspettava il suo internamento, dato che in paese tutti lo ritenevano pazzo per esser stato « sempre contro il governo ».
Successivamente, la ricerca si sposta a Sulmona, nell’archivio della basilica di San Panfilo, ricco di documenti e cimeli concernenti fra Pietro Angelerio.
Il soggiorno nella città ovidiana offre a Sílone l’opportunità di fare una sorta di pellegrinaggio all’eremo di S. Onofrio, situato in una costa rocciosa difficilmente raggiungibile dove l’eremita « se ne stava rinchiuso quando la delegazione del conclave lo visitò per annunciargli la fatale nomina ». Lungo il sentiero egli s’imbatte in un vecchio contadino che, richiesto d’un parere su San Pier Celestino, confessa di non sapere « per quali grazie o favori conviene pregarlo » e, appreso dallo scrittore – tra il serio e il faceto – che il Santo potrebbe salvare « dalle tentazioni del potere », osserva con una certa gravità: « Allora è un santo non per noi poveracci, ma per i preti ».
Proseguendo le sue ricerche, Silone continua a visitare conventi e a leggere storie edificanti, ma s’accorge ad un certo punto che il suo lavoro si va precisando in una ben diversa direzione ed allora prende a girovagare per gli antichi comuni della conca del Fucíno (Celano, Luco, Trasacco, Ortucchio), dove ritrova vecchi amici e riscopre una realtà rimasta più o meno ímmutata dalla sua lontana infanzia, cioè da quando ancora bambino vide le prime volte questi paesi, in occasione di feste relígiose.
Ha modo così di definire quelli che gli sembrano alcuni caratteri essenziali della civiltà abruzzese e meridionale in genere, di cui risulta fondamentale la tradizione ispirata in prevalenza a « santi martiri, obiettori di coscienza dei primi secoli dell’era cristiana ». Quasi priva di « glorie cívili paragonabíli a quelle della maggior parte delle altre regioni italiane », la storia abruzzese è percorsa totalmente dallo spirito del cristianesimo, ma d’un cristianesimo alieno « dalle compromissioni costantiniane », con una « forte inclinazione ascetica » come a riparo « da una condizione umana assai dura e prossima -_ìJhi disperazione », Di qui l’accoglienza, spinta talvolta agli estremi, riservata alle « ispirazioni benedettine, joachimíte e francescane ». Di qui ancora la diffusione, verso la metà del ‘300, dei fraticelli spírituali e dei celestiniani, uniti da « una comune fede nell’imminente Regno di Dio, quale era stato annunziato nel secolo precedente da Gioacchino da Fiore: l’attesa di una terza età del genere umano, l’eta. dello Spirito, senza Chiesa, senza Stato, senza coercizioni, in una società egualitaria, sobria, umile e benigna, affidata alla spontanea carità degli uomini ».
Questo « mito del Regno » è sempre stato per Sílone un tema di fondo: esso non ha nulla di « archeologico » né di « pura erudizione », poiché tutto calato nelle radici di quella « terra di elezione dell’utopia » che è l’Italia meridionale. E l’utopia, nelle vicende delle nostre regioni, « è in definitiva la contropartita della storia ufficiale della Chiesa e dei suoi comptomessi col mondo ». Se essa non si è mai spenta, è perché risponde ad un bisogno inestinguibile dell’uomo. Dice, al riguardo, Silone: « Vi è nella coscienza dell’uomo un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare. La storia dell’utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace. Nessuna critica razionale può sradicarla, ed è importante saperla riconoscere anche sotto connotati diversi ».
L’avventura di Celestino si spiega e si giustifica se ricondotta in questa storia dell’utopia: anch’egli, per la verità, come altri si illuse per qualche tempo di poter « ravvicinare e unire » le due diverse vie di seguire Cristo, quella concordataria e storicizzata da una parte e, dall’altra, quella escatologica e profetica; ma quando fu costretto a scegliere, non esitò. Dal suo esempio, così come dalla storia più sotterranea della Chiesa, ci proviene una eredità ricca di contenuto morale e contraria ad ogni apparato ideologico, una eredità che è da ritenersi « l’acquisto più importante d’un certo numero di noi negli ultimi decenni », impegnati nella riscoperta di valori e non nella definizione di teorie, che il più delle volte « sono maschere, o alibi, od ornamento ».
Una conclusione, questa, che porta Sílone a ribadire la propria definizione di « cristiano senza Chiesa ». Egli attribuisce alla Chiesa post-conciliare il merito (li coraggiose deliberazioni su questioni formali e gerarchiche, ma essa resta strutturalmente « un sistema di dogmi la cui validità non è più riconosciuta in assoluto », un sistema che egli potrebbe accettare solo fingendo e quindi disponendosi a « sopraffare la ragione, violare la coscienza, mentire a sé e agli altri, offendere Dio ».
Col passare degli anni, dunque, le ragioni del suo distacco dalla Chiesa cattolica si sono estese e approfondite: dalla sfera della politica contingente sono passai,- ad investire quella più propriamente dottrinale. Allo stesso modo può dirsi del suo distacco dal comunismo: le ragioni del primo dissenso sui metodi dello stalinismo si sol-io gradualmente allargate « a tutta l’impalcatuta ottocentesca, pseudoscientífica del leninismo e alla sua prassi totalitaria ». Al fondo di questa duplice operazione di rottura, c’è una sola urgenza ed è quella di liberarsi dagli schemi troppo rigidi e soffocanti delle ideologie. Silone, naturalmente, non si nasconde i rischi di venir a trovarsí in un totale isolamento, ma non dispera di fronte a questa prospettiva: a salvarlo dal buio del pessimismo c’è sempre la fede nel cristianesimo e nel socialismo, intesi come valori e non come dottrine. Può suscitare qualche perplessità la sua confessione in proposito, ma nessuno può nutrire dubbi circa il rigore delle ra,,ioni che l’hanno motivata.
Ascoltiamole:« Rimane dunque un cristianesimo demitizzato, ridotto alla sua sostanza morale e, per quello che strada facendo è andato perduto, un grande rispetto e scarsa nostalgia. Che più? A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il Pater Noster. Sul sentimento cristiano della fraternità e un istintivo attaccamento alla povera gente, sopravvive anche, vi ho già accennato, la fedeltà al socialismo. So bene che questo termine viene ora usato per significare le cose più strane e opposte; ciò mi costringe ad aggiungere che io l’intendo nel senso più tradizionale: l’economia al servizio dell’uomo, e non dello Stato o d’una qualsiasi politica di potenza ».
Confessione lungamente meditata se è vero, com’è vero, che essa ha delle anticipazioni in un testo del 1942 (esattamente Situazione degli ex, confluito poi in Uscita di sicurezza) e nella Nota al lettore del dramma Ed egli si nascose, del 1944.
IL CONTENUTO DEL DRAMMA
L’azione si avvia in una piazzetta appartata di Sulmona, ai piedi del monte Morrone e alla vista della Maiella. La scena si apre con una giovane tessitrice, concetta, che cerca di spiegare una confusa storia di uomini di chiesa in rissa fra di loro »: si tratta di francescani, divisi in spirituali, detti anche fraticelli, e conventuali. Per saperne qualcosa di preciso, la ragazza dice di essersi rivolta al parroco, don Costantino, il quale le ha parlato del difficile momento della Chiesa rimasta senza papa, giacché da due anni i cardinali, riuniti in conclave prima a Roma e poi a Perugia, non trovano l’accordo sul nome da eleggere. Concetta, allora, con molta ingenuità ha fatto il nome del vecchio eremita del Morrone, fra Pietro, che molti ritengono un santo; e il parroco ha ammesso che, pur proteggendo gli spirituali come « i più vicini » alla regola di S. Francesco, egli tuttavia « è al di sopra delle beghe », ma per l’elevazione al pontificato non può avere alcuna voce tra i cardinali, e poi ha aggiunto, quasi parlando a se stesso: « Ci vorrebbe un intervento diretto dello Spirito Santo, un vero colpo di mano dello Spirito Santo sulla Curia romana ».
Mentre la ragazza riferisce, con un certo turbamento, su questa « storia », sopraggiunge suo padre, Matteo, un uomo anziano, vestito poveramente, e le conferma che in giornata arriveranno alcuni fraticelli da Macerata e da altri centri, per mettersi in contatto con fra Pietro: occorre perciò darsi da fare per procurare un po’ di cibo e ospitarli senza dare all’occhio della gente, poiché sono perseguitati come eretici dalle autorità, specialmente in certe diocesi dello Stato della Chiesa. Concetta si stupisce che dei frati vengano trattati come malfattori e il padre cerca di farle capire che « essi sono perseguitati per motivi di coscienza », essendo contrari al convento come « centro di potere e di ricchezza » e favorevoli alla creazione di « comunità libere, provvisorie e senza patrimonio », secondo il vero spirito cristiano e francescano.
Con molta circospezione, come dei fuggiaschi, arrivano fra Ludovíco da Macerata, fra Berardo da Penne, fra Tommaso da Atri e fra Clementino, uno studente, pure da Atri. Hanno fatto appena in tempo a sparire dietro la casa di Matteo quando un gendarme, per ordine del baglivo locale, con tono borioso dice a Concetta che dei poveri come loro non devono mettersi nei guai ospitando dei cristiani fuorilegge in cerca d’asilo. Ritiratosi il gendarme, appare don Costantino improvvisamente dalla via che sbuca al lato destro della piazzetta e sorprende Matteo e fra Ludovico, i quali non rispondono al suo saluto: il prete dice d’essere stato incaricato dal vescovo per dei chiarimenti con i fraticelli. Fra Ludovico prende subito le distanze accennando all’« abisso scavato » dalla degenerazione della Chiesa presente e dal « tradimento » dello spirito di S. Francesco « reso possibile dall’aiuto del papa, dei vescovi e dei preti ». Intervengono gli altri frati, che si erano nel frattempo nascosti, e ne nasce un colloquio un po’ agitato, durante il quale il prete finisce per acconsentire alle accuse di corruzione dilagante nella Chiesa e tuttavia si rifiuta di credere che « il più cristiano dei doveri » sia quello di « disubbidire ai superiori che tradiscono ».
Divenuto così conciliante, don Costantino si allontana dicendo a Matteo che le autorità hanno ricevuto una denunzia contro di lui e Concetta, « di una stravaganza » inimmaginabile. Mentre Matteo e i fraticelli commentano sottovoce l’accaduto, arriva fra Bartolomeo da Trasacco, vecchio monaco della locale Badia di Santo Spirito, tenuta dai morronesi, e spiega perché fra Pietro Angelerio, fondatore dell’ordíne dei monaci morronesi, pur essendo dotato di due vocazioni, quella dell’eremita e quella del pastore, predilige la prima per non compromettersi col mondo, ragíon per cui si è dimesso da abate del suo convento ed è tornato in montagna. Fra Tommaso osserva che non c’è da stupirsene, perché anche fra Gioacchino da Fiore e San Francesco rifiutarono il ruolo di guida dei loro Ordini, appunto per salvaguardare la propria integrità morale.
Dopo una parentesi umoristica riempita da Cerbicca, un buffo personagoío dai modi e smorfie del pagliaccio di circo, giunge il baglivo in compagnia del gendarme per intimare ai fratícelli di seguirlo ímmediatamente all’ufficio di polizia: essendo sprovvisti di documenti, occorre controllarne l’identità. A nulla servono le garanzie che offre su di loro fra Bartolomeo. Mentre il baglivo con tono imperioso cerca di imporre il suo ordine, arriva fra Pietro Angelerio, il quale gli ricorda che l’autorità civile non dovrebbe interferire nelle questioni ecclesiastiche e se per caso egli agisce per volontà del vescovo, questi deve sapere che tra i morronesi e i francescani spirituali vi sono legami di fraterna collaborazione, senza poi dimenticare che i fratelli presenti sono suoi ospiti e in quanto tali vanno rispettati come sacri. Il baglivo non sa che ribattere, sembra come smarrito, indietreggia e fa un vistoso gesto di rinunzia. Analogo risultato ottiene un’istanza del barone locale contro Concetta (dovrebbe restituire trenta sacchi di fave, per aver mangiato pochi piatti di minestra mentre era al suo servizio), sicché è costretto ad allontanarsi pallido di rabbia.
Il secondo quadro del primo tempo si svolge nell’eremo di Santo Onofrio, a mezza costa del monte Morrone.
E’ il mese di luglio del 1294: fra Pietro è in preghiera nella sua cella mentre sulla rustica porta sorvegliano fra Angelo da Caramaníco, fra Ludovico da Macerata e fra Bartolomeo da Trasacco. Il momento è di trepida attesa perché fra Pietro dovrebbe scendere a valle, a Sulmona, dove sono i prelati giunti da Perugia, che gli hanno recato la notizia della elezione al pontificato. Sono ancora le prime ore del mattino quando arriva, arrancando faricosamente, un messo vescovile per sollecitare il nuovo papa, giacché il corteo ufficiale è pronto nella cattedrale e tutto il popolo è in stato di esaltazione. Arriva anche un messo regale per dire che, con la delegazione ecclesiastica, sono ad attendere il Santo Padre lo stesso re Carlo Il e suo figlio Carlo Martello. Finalmente si apre la porta dell’eremo e appare fra Pietro vestito d’un umilissimo saio morronese: oramai ha vinto ogni perplessità in ordine alla tentazione del potere, per il bene supremo della Chiesa. Egli sa di non avere la saggezza e l’esperienza necessarie per guidare la curia romana e tuttavia si dispone ad affrontare il gravosissimo compito con il nome di Celestino V. Il secondo tempo è ambientato a Napoli, nella residenza provvisoria di Celestino V.
Il papa ha portato con sè, come assistenti personali, fra Angelo da Caramanico e fra Bartolomeo da Trasacco, che gli sono di grande sostegno morale; ma dopo appena due mesi di pontificato, il suo disagio di uomo semplice fra retori e cortigiani diventa penoso Lo affliggono, poi, veri e propri inganni di tutta una curia venale, che trova il suo emblema nel prelato che gli hanno posto a fianco come segretario privato, un uomo servile e subdolo, che presume di poterlo trattare come un vecchio deficiente. Ma un bel giorno egli decide di non prestarsi più ad avallare con la sua firma gli intrighi burocratici che nascondono interessi vergognosi, e così crescono sempre di più malumore e diceríe malevoli sulla inefficienza del suo buonsenso.
Anche a Roma, naturalmente, c’è insofferenza per il papa che preferisce starsene a Napoli, quasi a chiedere protezione al re. A farsi portavoce del dissenso della curia romana è il cardiriale Benedetto Caetani, il quale, in due udienze, trova modo di dirgli chiaramente che non si può governare la Chiesa col Pater Noster, essendo ormai essa divenuta « una potenza, anzi, la più elevata delle potenze, e deve regolarsi come tale ». Col passare dei giorni, Celestino V si rende conto sempre più che, in quelle condizioni, « è difficile essere papa e rimanere buon cristiano », per cui finisce ben presto col rimpiangere la vita eremitica e col maturare la decisione del « gran rifiuto ». Convoca a tale scopo un concistorio straordinario per il 13 dicembre, festa di Santa Lucia, e su suggerimento del cardinale Matteo Orsini, per conferire legalità ad un atto di abdicazione del tutto insolito nella storia del papato, sottoscrive un apposito decreto sul nuovo principio e poi, con voce alta e lenta, legge la formula delle proprie dimissioni dando « piena e libera facoltà al Sacro Collegio dei cardinali di scegliere e provvedere, per via canonica, di nuovo Pastore la Chiesa universale ».
Il terzo tempo del dramma ci riporta a Sulmona. Pochi giorni dopo l’abdicazione, Pier Celestino, scomparso nottetempo, viene ricercato per ordine del re di Napoli e del nuovo papa Bonifacio VIII col pretesto di metterlo al sicuro da presunte mire dei prelati francesi, i quali nel suo nome potrebbero addirittura tentare uno scisma da Roma. Per le strade della città peligna Cerbicca, fattosi per l’occasione banditore, dà fiato alla sua tromba per richiamare tutti al dovere di facilitare la cattura del fuggiasco ex papa, ma la gente lo assale con grida, fischi e lanci di ortaggi e rifiuti vari.
Pier Celestino intanto, accompagnato da fra Angelo, fra Bartolomeo, fra Clementino e i due ex chierici che lo servivano nella resideriza napoletana, è tornato segretamente sul monte Morrone. In un momento di schietta confidenza con i suoi seguaci fedelissimi, ammette d’essere dilaniato dai rimorsi per aver lasciato credere a tanti buoni cristiani « che esistessero le condizioni per un rinnovamento integrale della vita della Chiesa »: egli, in effetti, fin dall’inizio sentì d’affrontare la sua avventura « come un asino bendato »; salire al soglio pontificio, con le sue persuasioni circa il potere e la fede, fu un atto di ingenuità imperdonabile. Ma ormai, terminata la sua « triste avventura » di povero cristiano, ha il dovere di resistere alla persecuzione di Bonifacio, che egli definisce « stupida, e ingiusta, come ogni azione ispirata dalla paura ».
Lasciato al suo cremo Pier Celestino, il gruppo dei suoi fedeli ridiscende a valle. Un falso mendicante, salito fin lassù, corre a far la spia e così vengono imprigionati tutti, con l’aggiunta di Matteo, il tessitore di Pratola, sotto l’accusa di favoreggiamento della fuga dell’ex papa. In un camerone del carcere di Sulmona, gli arrestati si scambiano impressioni e battute su quanto è accaduto, addolorati per il « destino beffardo » toccato a Pier Celestino, ma ben lieti che egli si sia « ritirato a tempo per non essere stritolato » nell’ingranaggio del potere. Il baglivo assicura loro che saranno interrogati al più presto da un teologo inquisitore e saranno rimessi in libertà non appena indicheranno dove si trova l’ex papa.
Braccato contemporaneamente dagli agenti di Bonifacio VIII e dal re di Francia, anche se per ragioni diverse, Píer Celestino è costretto a lasciate l’cremo di S. Onofrio e a trovarsi nuovi rifugi. Nel maggio 1295, lo troviamo a Vieste, nella costa meridionale del Gargano, una località impervia, raggiungibile solo per mare. Ve lo ha accompagnato Goacchino, l’ex chierichetto riapoletano, ed ora li raggiunge fra Clementino da Atri, che porta tristi notizie su fra Angelo da Caramanico, morto nel carcere di Bologna, su molti fraticelli flagellati pubblicamente nelle Marche, molti altri dispersi sui monti, pochissimi messisi in salvo rifugiandosi in Grecia. Dopo lunghe riflessioni, anche Pier Celestino decide di riparare in Grecia, con una barca di pescatori messa a disposizione dal priore di San Giovanni in Piano e in compagnia di fra Tommaso da Sulmona.
Ma, salvatosi a stento da un nubifragio, si consegna prigioniero nelle mani di una delegazione di notabili, capeggiata da un alto prelato presentatosi a lui con l’apparente scopo di rendergli onore. L’ultimo quadro del dramma ci presenta un duro confronto tra Bonifacio VIII e Pier Celestíno nel palazzo Caetaní, ad Anagni: con loro, ormai si sa, si scontrano due opposte concezioni della Chiesa. Il papa, richiamandosi alla grande tradizione di Innocenzo III e di Gregorio VII, sostiene l’urgenza di ristabilire il principio di autorità su tutte le potenze terrene avvalendosi, se necessario, della facoltà « di scomunicare, di deporre; di dannare »: e tutto questo, per il bene dell’Europa e della Cristianità. Pier Celestíno si dichiara « atterrito dalla crescente secolarizzazione della Chiesa di Cristo », divenuta « írriconoscibile » da quando si prese a parlare « di eserciti cristiani, guerre cristiane, persecuzioni cristiane e altre ignominie del genere »: a suo parere, l’uníca vera missione della Chiesa è quella della salvezza delle anime, per la quale Cristo ha predicato « alcune apparenti assurdità », quali. « amate la povertà, amate gli umiliati e offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori », etc. etc. Messo alle strette dalle argomentazíoní di Pier Celestino, Bonifazio VIII reagisce con estrema durezza stroncando la discussione e chiedendogli se sia disposto « a condannare pubblicamente le opinioni e gli atti eretici di Ubertino da Casale, del Clareno e degli altri pazzi al loro seguito ». Celestino non solo si rifiuta di farlo, ma afferma che potrebbe darsi « che, al cospetto di Dio, in questo triste secolo, l’onore del nome cristiano sia affidato a quei poveretti ».
In preda ad un’íra furente, a questo punto, Bonifacio VIII balza in piedi gridando che non c’è più nulla da dirsi e che non ha più ragione di trattenerlo a casa sua: avrà il castigo che si merita. Pier Celestino, infatti, finirà i suoi giorni nella rocca di Fumone, a poca distanza da Alatri, una località « di fama tristissima ». Dopo la sua morte, avvenuta il 19 maggio 1296, all’età di 81 anni, corse voce che egli fosse stato assassinato per ordine di papa Bonifacio.
Testi del prof. Vittoriano Eposito