
Forza e Malinconia nell’arte di Silone
In una delle pagine più centrali del suo recente Uscita di sicurezza (Vallecchi editore), Ignazio Silone scrive così:
« Malgrado tutto, dunque resta qualcosa? Sì, vi sono certezze irriducibili. Queste certezze sono, nella mia coscienza, certezze cristiane. Esse mi appaiono così mutate nella realtà umana da identificarsi con essa. Negarle significa disintegrare l’uomo. Questo è troppo poco per costituire una professione di fede, ma abbastanza per una dichiarazione di fiducia… P, già molto questa fiducia che consente di andare avanti. Noi siamo costretti a procedere sotto un cielo ideologico buio; l’antico e sereno cielo mediterraneo, popolato di lucenti costellazioni, è ora coperto; ma a questa poca luce superstite, che aleggia intorno a noi, ci consente almeno di vedere dove posare i piedi per camminare.
Val quanto dire che la situazione spirituale ora descritta non ammette alcuna apologia o boria. Francamente, è un ripiego. Essa assomiglia a un accampamento di profughi in una terra di nessuno. Cosa volete che facciano dei profughi dalla mattina alla sera? Essi passano il meglio del loro tempo a raccontarsi le loro storie. Non sono davvero storie divertenti, ma essi se le raccontano, più che altro, per cercare di rendersi conto ».
Se ci abbiamo tenuto a citare questo lungo brano, è perché esso si presta in maniera singolare a introdurre alla lettura di Uscita di sicurezza: perché anzitutto siano gli accenti della prosa di Silone; perché condensa insieme i caratteri e insieme i limiti, e la forza del pari che la malinconica perplessità del suo messaggio; perché dice da quali bisogni (morali naturalmente assai prima che letterari) nasca la sua opera di scrittore; perché quella immagine dei profughi sopravissuti senza più una dimora al cataclisma della « storia » e delle « ideologie », al di là delle occasioni politiche che possono averla suscitata, precisa la natura tutta esistenziale della sua condizione d’uomo e permette d’allinearlo, accanto ad esempio a un Camus, tra i tipici esponenti d’una generazione di scrittori che, tra i terribili dilemmi di prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, si son fatti interpreti del conflitto tra i diritti dell’indívíduo e la ragion politica e sono stati magari pronti, come diceva Simone Weil, « a mutare di parte come la giustizia, questa fuggiasca dal campo dei vincitori; perché infine (ma è un infine che completa quanto abbiamo appena detto) illustra come meglio non si potrebbe la formula usata da Richard B. Lewis, uno studioso americano, in un suo saggio su Silone: « La sua biografia è stata la sua prima allegoria ».
E qui occorre, per intenderla, tener appunto presente la vita di Silone, questa vita in perpetua crisi, o di perpetue conversioni, che proprio perciò va considerata tra le più centrali e rappresentative del nostro tempo: la sua iniziale adesione al comunismo, la sua attività clandestina in qualità di dirigente di quel Partito, il lungo esilio, la partecipazione, accanto a Togliatti, al convegno dell’Internazionale Comunista che vide il primo scontro aperto tra Stalin e Trotzskí, la sua susseguente crisi e più tardi le sue dimissioni, la sua difficile posizione di solitario oppositore di sinistra a ogni tipo di dittatura e di isolata voce di protesta contro l’involuzione del marxismo nei Paesi in cui aveva trionfato, la sua adesione, al rientro in Italia, al Partito socialista e più tardi di nuovo la solitudine, la sfiducia nella « panacea » messianica delle ideologie mista tuttavia a un coerente atteggiamento di « franco tiratore del socialismo », compongono, a ben pensarci, un arco ideologico che gli storici futuri considereranno certamente tipico dei nostri anni.
Ora, un’esperienza di questo genere si prestava a ogni esito, compreso il silenzio. La prima virtù di Silone scrittore è stata di farne la sua forza: egli non solo non ha mai rinunziato al bisogno di narrare la propria storia e di trasformarla in testimonianza, ma, inconsapevolmente certo, è venuto attribuendo ad essa un carattere emblematico, trasformandola appunto, come diceva Lewis, in una specie d’« allegoria ». A dirla altrimenti, egli ha avuto l’abilità (che è poi il segno del vero scrittore) d’identíficare le linee esemplari della propria biografia e di narrarla (negli eventi ma soprattutto nel perplesso svolgersi delle idee e degli interrogativi) con una tensione che ne travalica a ogni passo il cronachistico e l’episodico e la propone in qualche modo a simbolo d’un destino generale.
Si tratta del resto d’un procedimento connaturato a Silone: in ognuno dei suoi romanzi il salto qualitativo più convincente è quello in cui la sovrastruttura simbolica s’accampa al disopra delle strutture romanzesche (la tromba, ad esempio, di Una manciata di more), e in ogni caso è dalla vocazione ad attingere lo strato della coscienza – o dei messaggi o dei significati – che nascono le sue pagine narrativamente più significative. Ma appunto perciò diventa più facile comprendere come mai in Uscita di sicurezza, questa singolare autobiografia condotta per saggi anziché per capitoli e per pagine di meditazione più che per pagine di narrativa, sia dato ritrovare lo scrittore al meglio delle sue possibilità; come mai anzi, se per assurdo ci fosse chiesto d’indicare un’opera, una sola di Silone da salvare, non esiteremmo a scegliere proprio Uscita di sicurezza, come quella in cui la sua coscienza d’uomo, le sue perplesse ambivalenze. la sua ansia di messaggi, la sua tendenza a esprimersi per dimensioni emblematico – testimoniali ci viene incontro più direttamente senza i tramiti o gli inceppi o le diversioni impostegli in altri casi dalle strutture romanzesche.
Soprattutto ci viene incontro uno scrittore che non lascia adito a dubbi intorno alle sue qualità. Parlando una volta di Fontamara, Silone ebbe a definirlo un libro tragico perché, « come nelle tragedie, la tensione interna del racconto risulta dalla netta separazione tra la coscienza dei personaggi e lo sviluppo obiettivo degli avvenimenti ». Si provi a raccogliere questa nozione del tragico e ad applicarla a Uscita di sicurezza. Per nostro conto, riteniamo che vi si attagli alla perfezione, con questo in più rispetto a Fontamara: che lo scontro vi avviene al livello più alto, e più allo scoperto, perpetuando senza sforzo, meglio, senza ostentazione, quel conflitto tra « coscienza » e « storia » e tra ragioni dell’etica e ragioni della politica che come è stato da sempre la pietra di paragone della nostra civiltà, così ha raggiunto le sue punte più drammatiche nei suoi anni. E occorre aggiungere che tale risultato scaturisce anche, o soprattutto, dal carattere stesso della scrittura, dal suo tono di ferma pacatezza, dall’obiettività insomma della narrazione, sicchè sul campo neutro degli episodi evocati meglio scocca e si stacca il flusso delle riflessioni e delle proposte morali, il momento cioè della coscienza.
E’ chiaro dunque che un libro del genere si può leggere in vari modi: cercandovi ad esempio subito le pagine dov’è più scoperta la polemica anticomunista o dove più pregnante o accorato si fa il messaggio politico e umano di Silone. Noi tuttavia vorremmo consigliare d’affidarsi all’ordine fissato dall’autore, di seguirlo cioè via via attraverso i capitoli della sua ideale autobiografia, cominciando proprio da quelli relativi alle prime impressioni dell’infanzia e alle prime rivelazioni, agli occhi d’un ragazzo d’un remoto angolo dell’Abruzzo, della ingiustizia e della bontà umane. Senza di essi, non si comprende il seguito. Non si comprendono, in particolare, gli insegnamenti ch’egli propone, la sua fedeltà al mondo degli oppressi e in definitiva i fondamenti del suo « umanesimo », quale egli lo formula in La scelta dei compagni: « La possibilità della comunicatività delle anime non è una prova irrefutabile della fraternità degli uomini? Questa certezza contiene anche una regola di vita. L’amore per gli oppressi nasce da ciò come un corollario che nessuna delusione storica può mettere in dubbio non essendo amore d’interesse. La sua validità non dipende dal successo. Con queste certezze a fondamento dell’esistenza, come rassegnarci a veder soffocare le possibilità dell’uomo nelle creature più umili e sfortunate? ».
Questo insomma e altri passi d’uguale tensione arrivano a termine d’un lungo itinerario, e se da esso si prescinde perdono una parte della loro intensità. Nel consigliare però di leggere il volume pagina per pagina, e proprio anzi « come un romanzo » è contenuta anche un’indicazione di carattere letterario: perché tra i tanti discorsi che a proposito o a sproposito si fanno oggi intorno alla formula del romanzosaggio, chi sa che non ci sia qualcuno disposto a riconoscere in Uscita di sicurezza uno dei « romanzi » più significativi di questi nostri anni?
Mario Pomilio * Da “La Regione Abruzzese”, febbraio 1966.