Uscita di sicurezza


Con La volpe e le camelie si chiude, in un certo senso, la seconda fase dell’esperienza narrativa di Ignazio Silone: una fase che si può far coincidere con gli anni ’50 e che lo vide impegnato anche su tanti altri temi e problemi, dei quali ci siamo occupati in un altro studio. Per quanto riguarda il lavoro più propriamente creativo svolto nel decennio, è opportuno ancora una volta ricordare l’attenta revisione, che per vari motivi si potrebbe meglio dire rielaborazione, dei romanzi dell’esilio: nel ’49 esce appunto la nuova edizione, completamente riveduta e corretta, di Fontamara; nel ’50, quella di Il seme sotto la neve (addirittura nel ’61, come già si è visto, se n’ebbe una terza stesura); nel ’55, quella di Pane e vino, che nel titolo diventa Vino e pane.
Ci sembra doveroso rilevare che con queste revisioni e rielaborazioni, che di fatto furono le prime edizioni in Italia delle opere dell’esilio (se si esclude quella di Fontamara nel ’47, avvenuta quasi all’insaputa dell’autore), la critica italiana veniva a disporre per la prima volta dell’intero corpus della narrativa siloniana. Era pertanto inevitabile che si profilasse allora, meglio che nell’immediato dopoguerra, il cosiddetto « caso » Silone, in tutto paragoriabile apparentemente ad un nodo inestricabile, poiché vi confluivano da un lato assurde prevenzioni di ordine ídeologico-politico, dall’altro vecchi pregiudizi di ordine estetico-letterario, in luna strana commistione di elementi contraddittori.

Sta di fatto che furono ben pochi coloro che, sfuggendo alla morsa del determinismo d’ispirazione marxista e a quella un po’ meno ferrea del determinismo cattolico, riuscirono a inquadrare l’opera narrativa di Silone nel suo giusto significato e a coglierne l’esatto valore. Il distacco dello scrittore dalla politica militante avrebbe dovuto agevolare il compito della critica letteraria, ma non fu così, anche perché Silone non interruppe mai il suo impegno culturale all’insegna della massima libertà, collocandosi in quella posizione, impensabile per molti, di « socialista senza partito e cristiano senza chiesa ». Era in realtà una posizione scomoda per tutti, che comunque garantiva a Silone come uomo e come scríttore il ruolo di « franco tiratore » rispetto alle forme istituzionali del potere, liberandolo da quella che egli riteneva la ipoteca più insidiosa d’ogni rigida ideologia e cioè: « la tendenza a identificare l’ideale, l’assoluto, il bene, il bello ad una qualsiasi istituzione; cioè a confondere la letteratura, la poesia, la verità con un partito, con una chiesa, con uno stato ».

Spia illuminante del grave disagio che una siffatta collocazione poteva generare intorno a Silone è da vedere nella vicenda editoriale e nella successiva contrastata fortuna toccata al libro Uscita di sicurezza. Rifiutato da Mondadori, che pure era diventato l’editore esclusivo di Silone, il libro uscì presso Vallecchi nel maggio del 1965. Presentato al Premio Viareggio, fu bocciato, suscitando accese polemiche. E’ pur vero che subito dopo ottenne il Premio Marzotto per la letteratura, che non era di minore prestigio, ma la cosa parve riparazione di un’ingiustizia già patita più che l’esaltazione di un merito oggettivamente riconosciuto.

Il successo di pubblico, invece, fu strepitoso: in tre anni appena, si ebbero dieci edizioni in Italia e cinque traduzioni all’estero, con riproduzioni parziali e abbondanti citazioni sulla stampa di tutto il mondo. La critica italiana, fatta eccezione per il settore dell’estrema sinistra, ne fu conquistata; ma le valutazioni che se ne dettero, in molti casi risentivano di un ambiguo apprezzamento di sapore ideologico-politico molto più che di una serena riflessione di ordine propriamente civile e letterario. Ed era inevitabile che ciò accadesse per la struttura stessa del libro e per il significato che esso globalmente finì con l’assumere per la presenza di alcune pagine in cui l’urgenza polemica pareva decisamente prevaricare e soffocare il valore della testimonianza.

 

TRAME STRUTTURE E SIGNIFICATI

Il libro, per la verità, ha una struttura che sfugge agli schemi canonici dei generi letterari: raccoglie infatti quattordici scritti,tra racconti e saggi, appartenenti ad epoche diverse, diseguali nella stesura e nel taglio, eppure talmente organici nello spirito e nelle motivazioni di fondo da costituire una narrazione compatta, non di rado avvincente per le questioni che sollevano non meno che per la forza suggestiva che contengono. Alcuni sono dei veri e propri racconti dal vivo o dal vero, a sfondo autobiografico, e risalgono al 1949: Visita al carcere, La chioma di Giudítta, Polikusc’ka, La pena del ritorno, Incontro con uno strano prete, Uscita di sicurezza. Altri sono d’intonazione fortemente polemica, in un intreccio di sollecitazioni socio-politiche, etico-religiose, filosofico letterarie: Situazione degli ex, del ’42, La scelta dei compagni, del ’54, La lezione di Budapest, del ’56. Altri ancora, sotto il comune titolo Ripensare il progresso, hanno tino spessore più marcatamente storico- sociologico in quanto attinenti ad aspetti e problemi della realtà contemporanea: La sfinge del benessere, Le sorprese dell’assistenza, Agiatezza e costumi, Controversie sui mass-media, Quale prospettiva?, tutti nati da riflessioni degli ultimi anni.

Pur convinti che il libro si presti ad una lettura unitaria, noi siamo costretti in questa sede a prenderne in esame solo la parte più spiccatamente nartativa, cominciando dal racconto che dà il titolo all’intera raccolta e che s’impone su tutti gli scritti, sia per la vastità del suo respiro evocativo, sia per la complessità della sua problematica.

Apparso già nel 1949, prima in edizione inglese e americana, in un volume antologico comprendente anche scritti di A. Koestler, A. Gide, L. Fischer, S. Spender e R. Wright, poi in edizione italíana sulla rivista « Comunità » (settembre-ottobre, 1949, n. 5) e nel volume Il dio che è lallito (Milano, 1950); successivamente riveduto e accresciuto di pochi dettagli in riferimento ad un intervento offensivo di Palmiro Togliatti (Come Ignazio Silone venne espulso dal Partito Comunista, « l’Unità », Roma, 6 maggio 1950) . vide la luce in opuscolo nelle Edizioni della « Associazione italiana per la libertà della cultura » (Roma, 1951, 1955).

Il testo è una sofferta testimonianza dell’uomo e dello scrittore Silone che rípercorre, sul filo della memoria, il cammino che lo portò gradualmente alla scelta e poi al rifiuto del comunismo. Il racconto prende l’avvio da una sera del novembre 1926, in cui l’autore e pochi altri compagni di partito, rifugiatisi in un villino d’un sobborgo milanese per sfuggire all’arresto della polizia fascista su invito di uno di loro passarono la notte cercando di spiegarsi « reciprocamente come e perché fossero diventati comunisti ». Dall’insieme delle confessioni, al mattino si dovette ammettere che ogni scelta conteneva delle storie apparentemente « incomprensibili ». Sulla falsariga di quanto disse quella notte, a distanza di molti anni Silone ricostruisce la sua storia, che affonda le radici addirittura in alcuni « episodi desolanti » della infanzia che s’incisero nella sua memoria e che, con altri episodi non meno gravi vissuti direttamente nell’adolescenza e nella prima giovinezza, lo indussero molto presto alle più amare considerazioni sulle storture della società e sulla sofferenza degli umili.

Ad un figlio di contadini come lui sarebbero state di sicuro giovamento le regole dell’opportunismo e della rassegnazione, tipiche di un ambiente arretrato come quello meridionale, per tentare la scalata agli onori sociali, ed invece scelse la via della rivolta interrompendo gli studi liceali e dedicandosi ad una intensa attività politica, che gli impose inenarrabíli sacrifici fino alla fame: « Fu una specie di fuga, di uscita di sicurezza da una solitudine insopportabile, un terra! terra!, la scoperta di un nuovo continente. [ … ] Nell’intímo della coscienza tutto venne messo in discussione, tutto diventò un problema. Fu nel momento della tottura che sentii quanto fossi legato a Cristo in tutte le fibre dell’essere ».

Le cose peggiorarono dopo l’avvento del, fascismo al potere, dovendo anche lui vivere come straniero in patria, cambiar nome, abbandonare amicizie e parentela, gettarsi allo sbaraglio. Fu allora che il partito per lui « diventò famiglia scuola chiesa e caserma; all’infuori d’esso il mondo restante era tutto da distruggere ». E non v’era ragione di lamentarsi perché ogni sacrificio « era ben accetto, come un doveroso contributo personale al prezzo del comune riscatto ». Ma, dopo tanto slancio, ecco i primi turbamenti e quindi il « disgusto » per la degenerazione burocratica del Comintern, cui seguirono « giornate di cupo scoraggiamento » per la condanna di Trotzski e Zinovíeff voluta da Stalin, prova inoppugnabile d’un cieco assolutismo che la coscienza non riusciva a giustificare. Di qui la crisi, lo smarrimento, la solitudine e la rottura col partito. Ritrovata a stento l’« uscita di sicurezza », non ne ebbe affatto sollievo, sì piuttosto motivo di tormento, che l’accompagnò per tutti gli anni successivi. E la ragione non è facile a capirsi: « l’uscita dal Partito comunista fu per me una data assai triste, un grave lutto, il lutto della mia gioventù. E io vengo da una contrada in Cui il lutto si porta più a lungo che altrove ».

Il racconto si chiude con la franca ammissione che una « spassionata critica dell’esperienza sofferta » ha condotto lo scrittore « a una approfondimento dei motivi del distacco e alla constatazione ch’essi vanno assai al di là di quelli occasionali sui quali si produsse ». 1 motivi di fondo, infatti, erano di ordine morale in quanto non riguardavano problemi di strategia politica, ma coinvolgevano l’uomo nella totalità della sua coscienza. Tanto è vero che egli non ha perduto la sua fiducia nel socialismo, inteso non come teorie più o meno « scientifiche » destinate a deperire e scomparire col tempo, ma come un insieme di « valori » permanenti, rivolti a creare « un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini », ossia una società basata sul bisogno di una « effettiva fraternità » e sulla affermazione « della superiorità della persona umana su tutti i meccanismi economici e sociali che l’opprimono ».
Da sottolineare, tuttavia, accanto a questa professione di fede, un inspiegabile senso di accorata delusione come per aver subito
uno scacco imprevedibile e irreparabile. Sentite: « Che mi rimane della lunga e triste avventura Una segreta affezione per alcuni uomini che vi ho conosciuti, e il gusto di cenere di una gioventù sciupata. La colpa iniziale fu certamente mia nel pretendere dalla azione politica qualcosa che essa non può dare.

Anche la rivolta per impulso di libertà può dunque essere una trappola, mai peggiore della però della rassegnazione. Ogni volta che ripenso a queste disgrazie a mente serena sento risalire dal fondo dell’anima l’amarezza di un’infelicità a cui forse m’era impossibile sfuggire ». Una chiusa toccante, senza dubbio Silone, avendo anticipato quasi tutti nella diagnosi della tragedia che si venne poi consumando sotto lo stalinismo, avrebbe avuto mille ragioni per dare alle sue parole un tono autocelebrativo, ed invece lo vediamo tormentarsi in un’autoanalisi spietata, denunciando tutte le proprie perplessità e perfino debolezze, senz’alcuna attenuazione. Ne risulta un autoritratto interiore dei più singolari nella tradizione letteraria d’ogni paese e d’ogni epoca.

Ma quello che più accresce la bellezza del racconto è l’impianto multiforme dei flash-beach, attraverso cui fa rivivere persone e personaggi che hanno lasciato il segno sulla sua stessa vicenda: la madre che, dopo il processo scandaloso del cane padronale e della povera sarta, si augura che il figlio da grande non faccia il giudice; il padre che si rifiuta di promettere il voto al principe Torlonia; il parroco che insegna la dottrina cristiana disinteressandosi di ciò che succede fuori della chiesa; i notabili che non vogliono « impicciarsi » delle truffe avvenute nei lavori di ricostruzione dopo il terremoto; i ragazzi che promuovono « la rivoluzione dei tre soldati »; e, sullo sfondo degli intrighi Della politica del Comintern, le figure di Lenin e Trotzski che s’intravedono come baluginanti eppur gigantesche, Stalin dal volto truce e i suoi accoliti genuflessi, Gramsci nel suo generoso tentativo di una teorizzazíone non succube di Mosca, Togliatti inquisitore inflessibile contro gli « eretici ». Il lettore, alla fine, ha la sensazione di aver assistito alla rappresentazione d’un dramma crudele, culminante con l’isolamento del « traditore », ingiuriato, diffamato, ma poi riabilitato dalla verità della storia.

Comunemente, Uscita di sicurezza viene considerato più un saggio che un racconto, ma, a nostro patere, il ritmo narrativo non viene meno neppure verso il finale, là dove sembra prevaricare il rigore di una logica stringente insieme con l’indagine di un’anima in pena. A ben riflettere, la tessitura aneddotica prevalente nella prima parte e tutta rientrante nello stile del miglior Silone, solo parzialmente cede spazio al puro argomentare, restando più o meno intatta la tendenza a far parlare i fatti e le circostanze attraverso l’eco che ne è rimasta nel fondo della coscienza.

Questo rilievo vale anche per gli altri racconti inclusi nel volume, che sono di minor mole, ma tutti bellissimi e densissimi di significato. Il libro si apre con Visita al carcere, uscito in prima stesura nel 1950 su « Il Corriere dell’Unesco » col titolo Per le vie polverose e dietro le siepi, poi tradotto e pubblicato in diversi paesi. Il racconto, molto breve, si compone di tre momenti, distanziati tra sé nell’arco d’un quinquennio circa, ma connessi come tre atti di una « pièce » fortemente suggestiva. Primo momento: il bambino Silone, mentre è alle prese col sillabario sulla soglia di casa, vede passare « un uomo cencioso e scalzo ammanettato tra due carabinieri », nella strada deserta e polverosa; e siccome procede « a balzelloni », con un « aspetto terroso » e un fagottino sulle spalle pieno di oggetti stridenti, il bambino non riesce a trattenersi dal ridere e viene perciò severamente rimproverato dal padre, che gli fa notare che non si deve deridere un detenuto, prima perché egli « non può difendersi », poi « perché forse è innocente » e, in ogni caso, « perché è un infelice ».
Secondo momento: qualche anno dopo, il padre lo porta con sé, su un carro tirato dai buoi, per la prima volta nei campi del Fucino e, giunti quasi sul posto di lavoro, s’infuria nell’accorgersi di non essersi rifornito di tabacco; rimedia, sul tardi, il bambino ottenendo mezzo sigaro da un contadino molto povero che passa nelle vicinanze a cavalcioni d’un asinello.

Terzo momento: qualche anno dopo ancora, mentre legge le Favole di Fedro davanti alla casa, riconosce « l’uomo del mezzo sigaro » che cammina con le manette tra due carabinieri e ne ha « un violento tuffo al cuore »; ne informa subito il padre e l’indomani vanno a fargli visita in carcere, portandogli dei sigari in dono.

Non occorre rifarsi alla metodologia della critica psicanalitica, per convincersi dell’incidenza straordinaria che fatti del genere hanno avuto non solo sulla psicologia d’un ragazzo in una così delicata fase evolutiva, ma sulla stessa visione del mondo che poi da adulto farà sua. L’uomo povero, ammanettato e indifeso, con lo spettro del carcere, suggerisce immagini che danno un risalto indimenticabile alla sofferenza del vivere, indipendentemente dal rapporto colpa-castigo. Se poi si aggiunge il sospetto dell’ingiustizia o la persuasione dell’innocenza del malcapitato, allora spunta il problema della persecuzione, cui si accompagna la riflessione sul destino che si accanisce contro i più deboli.

Scene pietose come quelle narrate erano abbastanza frequenti per la via dove abitava da ragazzo Silone, perché di lì passavano quelli che venivano arrestati nel paese e nei villaggi dipendenti dalla pretura locale. Si può dunque immaginare come egli ne venisse scosso nel più profondo. Non per nulla tante pagine dei suoi romanzi ne recano tracce visibilissime. Segue, nell’ordine di successione, La chioma di Giuditta, racconto brevissimo e, alla prima apparenza, d’argomento leggero. Vi si tratta di « una donnetta del tutto insignificante, piccola bruna robusta di spalle e di fianchi, come tante altre nelle nostre parti », ma col dono eccezionale di una « folta e lunga capigliatura che, già dalla prima fanciullezza, le poteva ricoprire l’intera schiena fino ai fianchi ». In paese tutti erano convinti che Giuditta avesse trovato marito solo grazie a questo privilegio datole dalla natura.

Purtroppo, come tante altre donne, qualche mese dopo il matrimonio anche lei dovette rassegnarsi a lasciar partire lo sposo per l’America, con la speranza che guadagnasse abbastanza « per comprare al ritorno un campo e forse anche, avendo fortuna, un orto o un pezzo di vigna ». Ma, dopo le prime rimesse di denaro, egli non diede più notizie di sé. Giuditta prese a fargli avere lettere sempre più accorate, che rimasero sempre senza risposta. Ad un certo punto, non potendone più dalla disperazione, tentò d’impiccarsi, dopo essersi disfatta della bella chioma a grandi forbiciate; e se non le riuscì di morire, fu solo per l’intervento provvidenziale d’un mendicante che si trovò ad entrare in casa proprio in quel momento per chiederle un pezzo di pane. Tutto il paese fu assalito da una ondata di commiserazione.

Qualche settimana dopo un fatto così doloroso, un ispettore postale, su sollecitazione di sconosciuti, fece una rapida inchiesta e scoprì che Nicola il postino non aveva consegnato la corrispondenza alla dorma, non per derubarla però dei dollari che conteneva, ma per attuare una sua strana vendetta: voleva infatti punirla per non , aver acconsentito alle sue pressanti richieste di farsi vedere almeno una volta con i capelli sciolti. Svelato il mistero, Nicola dovette nascondersi per sfuggire al linciaggio popolare. Ma una sera, intenzionato a costituirsi, si rifugiò nell’orto di Silone e il padre, che pur lo avrebbe ucciso se lo avesse incontrato in montagna durante la caccia alla lepre, lo accolse in casa, gli diede qualcosa da mangiare e Poche pagine in tutto, ma davvero sorprendenti nel rapido susseguirsi dei fatti.

Appare ricreato perfettamente l’ambiente del paese, con le voci e i pettegolezzi dapprima, poi col generale raccapriccio sulla sorte della povera Gíudítta e l’indignazione per il comportamento dei postino. Particolarmente efficace l’atmosfera che circonda il postino, per l’attesa che suscita la sua grossa borsa di cuoio con le lettere provenienti in gran parte da Filadelfía o da Pittsburg: pareva un vero messaggero della Provvidenza, affabile e servizievole con tutti, ma specialmente con i destinatati analfabeti, come era il caso di Giuditta, per i quali si prestava anche al non facile compito della lettura e della risposta. Nicola, è vero, aveva un aspetto benevolo, ma era un tipo piuttosto strano: voleva farsi prete, ma « gli erano mancati i soldi per la teologia »; non si era sposato, quasi « a dimostrare la serietà della vocazione »; amava la solitudine, anche perché teneva alla dignità di « pubblico funzionario » tra una massa di povera gente.

In fondo, la sua pretesa di vedere sciolta la chioma di Giuditta non aveva nulla di volgare, ma all’occhio della donna era davvero un assurdo perché rientrava in un diritto che spettava solo al marito. Se il caso consentisse di guardare un po’ sotto la superficie della vicenda, potremmo anche scoprirvi il segno di una símbologia tutta inconscia, che coinvolge la inviolabilità del segreto coniugale. Vi sono dei dettagli, poi, relativi alla condotta del padre di Silone, che valgono a definirne la figura d’uomo franco e inflessibile, da cui il ragazzo apprese indimenticabili lezioni di vita. Incontro con uno strano prete, apparso su « L’Europeo » nel febbraio del ’49, successivamente tradotto e pubblicato in molte lingue, è forse il racconto che ha avuto più successo con Uscita di sicurezza. Vero epicentro della narrazione è don Luigi Orione, un prete morto in fama di santità, ma che Silone conobbe da ragazzo quando egli, sui quarant’anni, « era ancora assai lontano dalla sua futura rinomanza ».

L’incontro avuto con lui, nel vuoto lasciato li dalle rovine del terremoto che nel 1915 distrusse la Marsica, fu una fonte di rigenerazione spirituale che contribuì potentemente a dare un senso preciso alla propria « rivolta ».
Singolare il lontano prologo, per così dire, dello stesso incontro: nei giorni susseguenti al terremoto, un piccolo prete di sua iniziativa si precipitò nei paesi deserti della Marsica, per raccogliere i bambini e i ragazzi rimasti senza famiglia che con mezzi di fortuna riusciva a trasportare a Roma; e una mattina grigia e gelida di quel terribile gennaio Silone ‘ vedendolo tutto « sporco e malandato » mentre con la forza quasi « requisiva » una delle macchine venute al seguito del re Vittorio Emanuele III° in visita nella zona, chiese chi fosse « quell’uomo straordinario » e da una povera donna si sentì rispondere: « Un certo don Orione, un prete piuttosto strano ».