
Uscita di sicurezza (2)
Esattamente un anno dopo, espulso da un collegio religioso di Roma per essersene allontanato senza giustificato motivo, Silone, che era rimasto orfano di entrambi i genitori, fu accolto in un istituto di don Orione a San Remo su richiesta della nonna. Addirittura fu lo stesso « strano prete » ad accompagnarlo alla nuova sede. E così, durante le lunghe ore di viaggio, trascorse in affabile conversazione, poté conoscerne tutta la semplicità e l’umiltà, fino ad esserne profondamente conquistato. Senza dubbio, da quell’incontro derivarono al ragazzo alcune intuizioni che maturarono poi nell’animo dell’uomo e dello scrittore, al punto da essere trasfuse in più d’un personaggio dei suoi romanzi. Si pensi ad affermazioni come questa: « La mia vera vocazione, e un segreto che voglio rivelarti, sarebbe poter vivere come un autentico asino di Dio ». Oppure: « Ricordati di questo. Dio non è solo in Chiesa. Nell’avvenire non ti mancheranno momenti di disperazione. Anche se ti crederai solo e abbandonato, non lo sarai. Non dimenticarlo ». E Silone non lo dimenticò mai, se è vero che nell’imminenza della morte giunse a desiderare la recita del Pater Noster sulla propria tomba.
Ma il particolare che di quell’incontro lasciò il segno più indelebile nell’aníma dell’adolescente Silone è un altro: la minuta di una lettera, in « uno stile veemente e bellissimo » del genere cateriniano, con cui don Orione suggeriva al Papa « l’audace idea di una iniziativa cristiana tra i popoli per mettere al più presto fine » alla guerra mondiale. Il prete gli confidò che il Papa lo aveva ricevuto affettuosamente, per dirgli però che « il suo piano non era attuabile », non potendo la Chiesa fare altro che rivolgere ai propri fedeli « un invito alla preghiera ». E lo scrittore, nel ricordo, commenta: « Don Orione aveva naturalmente accettato come un figlio docilissimo la lezione impartitagli dal Papa con parole, com’egli riferì, di accorata tristezza, e si era reso conto che la situazione del Cristianesimo nella società moderna è più tragica e contraddittoria di quello che avesse pensato scrivendo la sua lettera ».
Subito dopo annota tra parentesi: « Non so se don Orione potesse allora prevedere la risonanza profonda e duratura che le sue parole avrebbero suscitato in me; credo di sì, altrimenti tutto il suo discorso sarebbe stato ingiustificato ». Quelle parole, in realtà, ebbero sul futuro scrittore una risonanza tanto « profonda e duratura », da farne una linfa segreta della sua stessa visione del mondo, a partire dal momento della sua riscoperta delle certezze cristiane. Al tempo immediatamente successivo al terremoto del gennaio 1915 e di poco precedente alla ripresa degli studi nella « gelida caserma » d’un collegio romano, ci riporta il racconto Polikusc’ka, così intitolato dal personaggio d’un ben noto racconto di Tolstoí.
Divenuta anche la sua casa un cumulo di macerie, Sílone non ancora quindicenne si trasferì con la nonna paterna « nel quartiere più povero e disprezzato » del paese: un agglomerato di « baracche a un solo piano prive di servizi igienici essenziali ». In una di quelle baracche era stata riaperta la sede della Lega dei contadini, frequentata ogni domenica sera da tre o quattro vecchi. Nell’interno, a una parete, c’era un quadro che « raffigurava Cristo redentore, avvolto in un lungo camice rosso e sormontato dalla scritta: Beati gli assetati di giustizia ». Sotto il quadro, « pendeva la tromba che una volta serviva a convocare le assemblee dei soci », per discutere problemi di lavoro oppure per agitate qualche questione politica. Il ragazzo Silone aveva preso a frequentare quelle riunioni, nelle quali c’era sempre « qualche forestiero che parlava ad alta voce », ma che lui non riusciva a seguire perfettamente, anche perché tutta la sua attenzione era assorbita dalla gente che gli pareva « come trasfigurata ».
La sua presenza finì col suscítare « scandalo » tra quelli che lo conoscevano, dato che egli era « ancora uno studente e che la sua parentela, senza essere ricca, era considerata di un ceto superiore ai contadini ». Fu lì che egli conobbe il vecchio Lazzaro, il quale da giovane era molto legato a suo padre e, nonostante la differenza di età, gli divenne amico: « Da quell’incontro nacque la mia amicizia con Lazzaro. Egli mi piaceva, parlava poco, era rude, modesto e saggio, senza traccia di paure o di servilismo. Non era molto istruito, sapeva appena leggere e scrivere, ma conosceva la vita da un lato a me ignoto ». A giudicare dall’insieme della sua condotta, Lazzaro « era quello, che si dice un buon cristiano ». Era stato per molti anni « príore della confraternita di San Francesco; ma non aveva più messo piede in chiesa dal tempo che i parroci della nostra contrada diedero ordine di suonare le campane per disturbare i comizi pubblici dei contadini ».
Ammesso a frequentare regolarmente la Lega, il ragazzo cercò di rendersi utile scrivendo, a nome di essa, lettere di protesta « alle autorità, un paio di volte perfino al governo di Roma », su questioni che Lazzaro gli esponeva dettagliatamente. Fu lo stesso Lazzaro che una sera, vedendolo con alcuni libri di scuola, gli propose di leggere qualcosa. Non disponendo di libri adatti, egli si rivolse ad un Povero medico che praticava in una frazione del comune e che, essendo anarchico era « trattato con diffidenza e disprezzo dalle buone famiglie », Avutone in prestito un piccolo volume di racconti di Leone Tolstoi, decise di leggere la storia di Políkusc’ka, con « quel tragico destino di un servo deriso e disprezzato da tutti, a causa della sua tendenza a bere e rubacchiare, che, volendo riabilitarsi nell’eseguire un importante incarico della sua padrona smarrisce il denaro affidatogli e per la disperazione s’impicca »,
A distanza di qualche anno, la figura di Polikusc’ka tornò alla mente di Silone durante un soggiorno a Mosca: « Una sera, nelle vicinanze del monumento a Pusc’kin, trovandomi assieme ad alcuni dirigenti della gioventù comunista sovíetica, vidi due militi portare via, di peso, un vecchio contadino ubriaco. Subito lo riconobbi. Non potreste farlo rilascíare? – proposi ai miei compagni.
Perchè? – mi rispose uno di essi: Non è che un insetto parassita ».
Il racconto si chiude con un ricordo così agghiacciante, la cui motivazione sembra un po’ marginale e puttuttavia consente di misurare non solo l’eco profonda lasciata da quella lettura nell’animo del futuro scrittore, ma anche la diversa angolazione con cui, rispetto ad altri, fin da ragazzo egli prese a giudicare le cose e gli uomini. Un bel risalto, nella narrazione, ha il vecchio Lazzaro, che ispirerà la straordinaria omonima figura di Una manciata di more: la sua rude saggezza, il suo coraggio, le sue « opinioni paradossali » sulla guerra e i governanti, sul Cristo « col camice rosso » dalla parte dei poveri, il suo distacco dalla Chiesa in segno di protesta contro il parroco che ha fatto del suono delle campane « la voce dei proprietari di terra » anziché la voce di Dio, il suo bisogno di sapere in contrasto con altri compagni che non vorrebbero sentire storie di libri, sono dei tratti caratteristici che ne fanno un contadino non comune.
Non meno rimarchevole, infine, è l’incontro casuale dello studente Sílone con Leone Tolstoí, scrittore allora già tanto celebre, ma del quale egli non conosceva ancora nulla. Singolare il fatto che, cominciato a leggerlo lungo la strada, all’ombra d’un albero, ne venne subito « turbato e commosso », fino a dimenticare « il tempo e l’appetito ». Fu, a nostro parere, una scoperta prefiguratrice della futura poetica dello scrittore Silone, stando alle ímpressíoní che ne ebbe: « Come doveva essere buono e coraggioso lo scrittore che aveva saputo ritrarre con tanta sincerità la sofferenza d’un servo. Quella triste lentezza del raccontare mi rivelava una compassione superiore all’ordinaria pietà dell’uomo che si commuove alle disgrazie del prossimo e ne distoglie lo sguardo per non soffrire ».
Deve aver visto giusto pertanto chi, per rintracciare le ascendenze e le affinità spirituali di Ignazío Silone, ha citato anche il nome di Leone Tolstoi. L’ultimo racconto s’intitola La pena del ritorno ed è un rifacimento di quel Rítorno a Fontamara che piacque molto a Bonaventura Tecchi, secondo il quale « sarebbe stato il suo maggior romanzo », se Silone ne avesse approfondito il motivo e sviluppato l’impianto. Eccone il contenuto.
Qualche tempo dopo il suo rientro in Italia, avvenuto nell’ottobre del 1944, molti della sua contrada nativa si rivolgevano a Silone, attribuendogli un potere pari alla sua rinomanza, con richieste di raccomandazioni « per trovare posti di portiere o di uscíere ». Alcuni chiedevano un lavoro qualsiasi: « anche modesto, anche mal pagato, purché si potesse eseguire al coperto, magari seduto, in risarcimento soprattutto dei dolori morali sofferti durante la guerra ». Silone che, come il Rocco De Donatis di Una manciata di more, concepiva la politica come soluzione di problemi collettivi senz’alcuna concessione al clientelismo, cestinava « senza rimorso » tutte le richieste, non escluse le « suppliche » del parroco di B., una frazione del paese natio. Ma un giorno ricevette una lettera diversa dalle solite: lo stesso parroco lo informava che una povera donnetta, Laurina, figlia d’un certo Lazzaro, era gravemente malata. Senza frapporre indugi, Silone decise di pattire: preferì prendere il treno di notte, per riaccostarsi alla sua terra in incognito come ne era partito venticinque anni prima Il viaggio durò molte ore, perché la ferrovia era stata fortemente danneggiata dai bombardamenti e dalle mine.
Sceso alla stazione d’arrivo, gli riapparve nitido nella memoria il momento del doloroso distacco da quella terra: « Partii di notte come un ladro, e non immaginavo di dover restare lontano tanti anni. » Lo aveva accompagnato solo Lazzaro, detto il ranocchiaro, un vecchio socialista di B., con Laurina, che era una ragazza dall’aria triste e rassegnata. Sul punto di salire sul treno, Laurina, con un filo di voce, gli aveva raccomandato di tornare presto. Ed invece, eccolo lì, dopo venticinque anni.
Dista un paio d’ore di cammino a piedi. Lungo la strada Silone incontra una guardia campestre e poi una povera donna, che lo informano delle tribolazioni e della morte disperata di Lazzaro, oltre che della fame patita da Laurina. Raggiunto il paese, che gli appare immutato « nel mucchio nero delle case », lo coglie « un’improvvisa paura, con un doloroso stringimento di cuore ». Vorrebbe tornare indietro, fuggire, ma il pensiero di Laurina lo trattiene. Dove trovarla? Pensa di rivolgersi al parroco, già suo compagno di studi al ginnasio diocesano di Pescina, e da lui apprende con incontenibile emozione che Laurina è stata sepolta proprio il giorno avanti e che poco prima di morire s’era ricordata d’un certo discorso fatto alla stazione, tanti anni addietro, tra suo padre e il giovane Sílone: « Pare dunque che Laurina e suo padre ti accompagnassero alla stazione quando tu fosti costretto a partire di qui.
Farai carriera e dimenticherai questa terra di dolore, sembra che ti disse il padre. Tu t’indignasti, non vi dimenticherò mai, dicesti, mai, mai. L’inesperta Laurina allora ti credette. Invece… Ma non poteva essere altrimenti, ella concluse ». A queste parole del parroco, Sílone si sente assalire da un’ondata improvvisa d’angoscia, come preso dal rimorso, ma anche da un impulso di risentimento contro l’amico che metteva un certo compiacimento nella sua voce, convinto anche lui che lo scrittore avesse dimenticato veramente la sua terra e la sua gente. La realtà era ben diversa: Silone non se n’era mai distaccato col pensiero e addirittura, nei momenti più tristi dell’esilio, volle fabbricarsi da sé un villaggio col nome di Fontamara, « col materiale degli amari ricordi e dell’immaginazione », per « viverci dentro ».
Il racconto è indubbiamente tra le pagine più belle in assoluto tra tutte quelle scritte da Silone: « la pena del ritorno » ritrova, per così dire, la pena della partenza e chiude in un arco doloroso l’esperienza di tutta una vita, condotta alla ricerca d’un approdo impossibile. Rimesso piede nella sua terra dopo tanto peregrinare per l’Italia e per l’Europa, cerca « di ricomporre i vari pezzi della sua esistenza » e invano si chiede « se avesse un senso ». L’emozione del momento sconfina in uno smarrito stupore: « Ma, a beli riflettere, che significa partire? Quanti, rimasti sempre qui e qui sepolti, han vissuto sospirando isole lontane, città remote: mentre il mal del paese è l’ossessione degli emigrati. Io stesso, questa terra, questa gente, l’avevo mai dimenticata? La mia immaginazione si era mai figurata qualcosa che non avesse qui il suo principio e la sua fine? ».
Questo « ritorno a Fontamara », in fondo, somiglia ad una proustiana « ricerca del tempo perduto », con la sua « visione problematica e relativistica della realtà », ma con in più un’accorata propensione a cogliere i mali sociali nella loro rigida immutabilità: sul treno, alla prima luce del mattino, uomini e donne riassumono l’abituale aspetto « chiuso, duro, diffidente »; il paese, sulla cresta della collina appare « immutato » allo scrittore, proprio come egli lo ricordava; la guardia campestre dice che Lazzaro è motto di fame, perché « non sapeva farsi i fatti suoi » e se Laurina gli sopravvisse, fu solo grazie all’elemosina dei vicini; un vecchio mendicante, alla vista di Silone, corre ad avvertire il prete che « dev’essere quello delle tasse »; una povera donna per tre settimane non riesce a vendere un canestrino di noci, per comprare delle « pillole » al fíglio malato; il parroco non sa fare altro che scrivere « suppliche » a persone influenti per « giovani contadini stanchi di lavorare la tetra »; le vecchiette che assistono Laurina, devono ammettere che quando « una testa si riempie d’istruzione, non c’è più posto per quello che c’era prima ».
Sono, se si vuole, tutti piccoli dettagli di una realtà minuta, da cui risulta l’affresco di una società semifeudale, senza sbocchi e senza prospettive. La rassegnazione è la legge che la sorregge; chi viola questa legge, è perduto, come nel caso di Lazzato il ranocchiaro, dal destino più triste dell’altro Lazzaro incontrato in Una manciata di more. Dice di lui la donna del canestrino di noci: « Quanto l’hanno fatto soffrire quel povero cristiano. Quante derisíoní, beffe, anche percosse, dovette sopportare. Era un santo, nessuno ne poteva dir male, nessuno ricevette mai un torto da lui; ma non conosceva la rassegnazione, non sapeva tenere la testa bassa ». Ribellarsi non serve a niente, aggiunge la povera donna.
E allo sconosciuto scrittore che le obietta che neppure la rassegnazione serve a niente, lei ribatte che serve « almeno per la salute dell’anima ». Accettare, dunque, il destino per meritarsi l’eterno: è questa una credenza comune, radicata nella coscienza del popolo, secondo una visione cristiana che Silone ritiene distorta. Per una valutazione complessiva di questi racconti, si può ben dire che essi consentono di seguire un cammino a ritroso lungo la memoria per ritrovare non la dolcezza di favole dimenticate, sì piuttosto le radici d’un dramma esistenziale cominciato addiríttura nella prima infanzia. Il rigore della ricerca della verità interiore, contro tutte le restrizioni e le inibizioni della realtà, potrebbe indurre a scorgervi anche il disegno di una sorta di storia del]’anima siloniana, ma senza cedimenti a sentimentalismi e idealizzazioni. Il procedimento seguìto, infatti, è quello del racconto dal vivo, ispirato cioè all’osservazione scrupolosa degli accadimenti anche se ricostruiti, per così dire, in un libero schema di montaggio. Per il fondo essenzialmente autobiografico della narrazione, si dovrebbe parlare più propriamente di opera rientrante nella cosíddetta letteratura della memoria, ma la tensione problematica libera i fatti e le figure dalla freddezza oggettiva e conferisce loro un calore tutto proprio della invenzione creatíva.
Quanto allo stile, i racconti hanno indubbiamente un carattere realistico, che noli deve nulla però alle forme stereotipate della tradizione letteraria poíché si alimentano anche di un’accensione fortemente inventiva, grazie alla quale le cose e le persone riassumono sfumature e voci della vita più intima, raggiungendo spesso la forza suggestiva della poesia autentica. Ne consegue che, almeno a nostro giudizio, queste pagine non hanno nulla di saggistico se per saggio si deve intendere quel genere letterario, sorto con l’avvento della prosa d’arte, tendente a esporre o interpretate, più o meno sull’esempio dei francesi, esperienze personali e problemi culturali, finendo spesso per esaurirsi in esercizi di bello stile. Anche qui, insomma, resta fondamentale il bisogno della testimonianza. E se è vero che a tal fine, secondo Silone, « han servito tanto i suoi racconti che i suoi saggi », è anche vero che tra gli uni e gli altri non negava che sussistesse una « differenza tecnica ».
Per rendersene conto, basterebbe dare uno sguardo anche fuggevole alle pagine restanti del volume in esame: Situazione degli ex è il testo di una conferenza, tenuta in lingua tedesca nel febbraio del 1942 a Zurigo, in cui si tratteggia la condizione e la figura di chi è passato attraverso « la realtà tragica » del comunismo e appunto per questo, nonostante l’incubo dell’esperienza vissuta, ha l’índerogabile « dovere di testimoniare »; La scelta dei compagni è il testo di un’altra conferenza tenuta nel corso del 1954, nel quadro dei programmi della « Associazione Culturale Italiana » di Torino, in cui, prendendo lo spunto dai numerosi casi di scrittori contemporanei morti di suicidio, si analizza il fenomeno di quello che Nietzsche chiamò « il níchilismo dell’età moderna », sfociante nel culto « della forza del successo » e tendente a « identificare la Storia con i vittoriosi », e vi si contrappone la necessità di una morale attiva, rivolta a definire i problemi concreti « della nostra esistenza e della nostra responsabilità di uomini d’oggi »; La lezione di Budapest, apparso su « L’Express » di Parigi nel dícembre nel 1956, in polemica con alcune dichiarazioni di Sartre sui « fatti d’Ungheria », è un’analisi spassionata degli errori incorreggibili che sono alle radici del « socialismo di Stato » e si conclude con la rivendicazione dell’autonomia degli intellettuali di fronte al potere costituito, perché le frontiere della pace, della libertà e della verità « passano all’ínterno di ogni paese e nell’interno di ognuno di noi »; infine, Ripensare il progresso affronta I’ insidioso problema dei rapporti tra il benessere collettivo e la vita morale », con riferimenti alle diverse esperienze fatte all’Est e all’Ovest, anche nel paesi socialmente più avanzati come quelli scandinavi, per giungere all’affermazione « che, in ogni epoca e sotto ogni regime, sia da stimare progressista solo ciò che favorisce le libertà, la responsabilità e l’autogoverno degli uomini ».
Sul piano tecnico-stilistico, questi saggi e conversazioni differiscono profondamente dai precedenti racconti: qui c’è un argomentare stringente, con procedura espositiva o polemica, e il tutto verte su una tesi rigorosamente dimostrata in un susseguirsi di riflessioni che non ammettono pause divaganti, dalle premesse alle conclusioni. Ma le idee, naturalmente, così come i sentimenti, il calore, la passione, sono identici a quelli che alimentano le vicende e i personaggi dei romanzi e dei racconti: i romanzi, è ovvio, più all’insegna della fantasia, i racconti più sul filo della memoria. Sicché aveva ragione Silone nel dire che, sostanzialmente, tra le sue opere non c’è differenza: « Nella mente a un certo livello dell’esperienza, la politica, la letteratura, la vita sociale si completano e si confondono ».
Testi del prof. Vittoriano Eposito