
La scuola dei dittatori
Nel triennio che intercorre tra la pubblicazione del saggio sul Fascismo (1934) e la stesura di La scuola dei dittatori (1937-38), Silone riesce, attraverso il difficile processo di macerazione interiore susseguito alla sua ”uscita di sicurezza”, a liberarsi dalla pesante eredita della militanza comunista e della visione marxista della realtà. L’impegno letterario gli offre i modi e i mezzi per portare a compimento la riflessione sulle ragioni della propria crisi di coscienza: il racconto Viaggio a Parigi (1934) e il romanzo Pane e vino (1936) sono lo specchio della delusione subita e, ad un tempo, della segreta speranza di portare avanti una solitaria battaglia per la liberta e la giustizia sociale.
Beniamino che, dopo le disavventure romane, tenta di espatriare a Parigi e alla fine se ne torna pur malvolentieri a Fontamara, convinto che dovunque sarebbe costretto a mangiare polenta, il cibo dei poveri, e Pietro Spina che, fuori del partito rivoluzionario in cui militava, si ostina da solo a far sollevare i contadini del Fucino e deve rifugiarsi sui monti per sfuggire alla polizia fascista, rappresentano efficacemente la condizione contraddittoria in cui versa Silone in quegli anni. I dialoghi che compongono La scuola dei dittatori, con al centro 1’acquisizione di una sostanziale equivalenza tra ”fascismo nero” e ”fascismo rosso”, rappresentano il superamento definitivo del conflitto interiore che stentava a risolversi. Illuminante può essere, a questo punto, la lettera in francese, molto polemica, che Silone invia il 30 agosto 1936 da Zurigo alla Redazione della rivista russa ”Das Wort”, per respingere 1’invito a collaborare, sia pure in forma occasionale, rivoltogli da Ernst Ottwalt. Queste, in succinto, le ragioni del rifiuto: dopo ”i recenti avvenimenti russi, che rivelano anche ai ciechi la maturazione di una situazione del tutto nuova” (con riferimento ai ”processi-farsa” e alle dure condanne di Trotzscki, Zinovieff, Kameneff, Bukarin, Radek ”e tutti gli altri vecchi militanti del bolscevismo”), non ha alcun senso che a Mosca si facciano ”proteste contro la polizia e i tribunali fascisti” operanti in Italia.
C’e piuttosto da chiedersi: ”Che valore hanno tutte le vostre tirate magniloquenti sui diritti elementari dell’uomo, sulla dignità dell’uomo e sulla difesa della cultura? Quale validità morale ha il vostro sedicente umanesimo?” Solo con ”dei miserabili giochi di parole – continua Silone – potete negare che i processi, che hanno attualmente luogo in Russia, non siano dei veri e propri omicidi collettivi di tutti quelli che non condividono la linea politica dominante, omicidi che ci si compiace di esercitare sotto forme giudiziarie veramente caricaturali e macabre”. In preda ad un inqualificabile ”delirio verbale”, i dirigenti del PCUS, sotto la pressione di Stalin, ”falsificano le opinioni degli avversari politici”, rifiutandosi di ”accettare con loro una discussione e una lotta leale sui problemi vitali del paese”.
Aver combattuto ”l’assolutismo zarista e la borghesia internazionale” non e servito a nulla per loro. A questo punto, appare legittima la domanda: ”Che cosa e diventata la Rivoluzione russa?” e ancora: ”Quali sono le cause obiettive di questa acutizzazione delle contraddizioni interne all’Unione Sovietica?” Addirittura l’apparato di propaganda, di cui dispone il governo russo, si serve di giornalisti e scrittori, come ad esempio quelli di ”Das Wort”, per mascherare le difficoltà reali della situazione, facendo tacere le voci del dissenso e spalleggiando una sorta di ”cretinismo giuridico”, teso a giustificare ogni misfatto per la ragion di Stato. Dai tempi di Marx ed Engels, ricorda Silone, i socialisti ”hanno sempre criticato la democrazia formale, la liberta astratta, l’uguaglianza sulla carta”; inoltre, ”hanno sempre ripetuto che non bisogna giudicare un paese o una società dalle sue leggi, ma dai rapporti reali esistenti tra gli uomini”.
Con la sua lettera, conclude Silone, crede di ”compiere un atto di sincerità” verso tutti coloro che desiderano conoscere il suo pensiero sulle questiooi sollevate: ”Sono infatti convinto, e ho cercato di esprimerlo con tutti i miei scritti, che per poter resistere contro il fascismo, non abbiamo tanto bisogno di mezzi materiali, ne di armi, ne di grandi apparati burocratici, quanto soprattutto di tutt’altra maniera di considerare la vita e gli uomini. Senza quest’altra maniera di considerare la vita e gli uomini, noi stessi, cari amici, diventeremmo dei fascisti. Voglio dire dei fascisti rossi. Ora, vi debbo dire che mi rifiuto di diventare un fascista, e soprattutto un fascista rosso”……
Testi del prof. Vittoriano Eposito