Il seme sotto la neve


Scritto a Zurigo nel biennio 1939-40, mentre in Europa imperversava la seconda grande guerra, Il seme sotto la neve apparve l’anno dopo, in traduzione tedesca, come già i romanzi precedenti, ma questa volta a cura dì Werner johannes Guggenheim. Nel 1942, uscì in edizione italiana per l’emigrazione, a Lugano, presso la piccola Editrice di Capolago, di cui era stato cofondatore lo stesso Silone, e in edizione francese, a Neuchátel, a cura di Jean-Paul Samson. Entrambe queste edizioni, nel timore di complicazioni nei rapporti con i paesi confinanti, suscitarono l’intervento della Censura militare elvetica, che richiese di apportare « tagli e modifiche ». Informato della cosa, Silone reagì con fermezza, scrivendo tra l’altro: « Rifiuto di cambiare checchessia nel mio libro, rifiuto di sostituire parole o frasi della edizione originale, che la censura considera inammissibili, con parole ed espressioni sterilizzate; rifiuto di lasciar parlare i personaggi del mio romanzo come se non fossero italiani vivi, ma diplomatici neutri ».

Il fatto è estremamente significativo poiché dimostra che le opere di Silone, al di là dei pur innegabili pregi artistici, avevano ed hanno il grande merito di scuotere la coscienza dei lettori. Dato il difficilissimo momento che si attraversava, Il seme sotto la neve non ebbe la stessa fortuna dei primi romanzi, raggiungendo appena il numero di una decina di traduzioni nell’immediato dopoguerra. I critici che se ne occuparono, comunque, ne furono quasi tutti entusiasti, specialmente in America. Lewis Gannet’, in un giornale molto autorevole, non ebbe alcun dubbio a presentare Silone come « il più grande scrittore italiano vivente ».

 

LA TRAMA DEL ROMANZO

Il romanzo continua la narrazione delle peripezie di Pietro Spina, dal punto in cui si erano interrotte alla fine di Pane e vino. Siamo nell’inverno 1935-36. Donna Maria Vincenza, duramente provata dalle tristi vicende che si sono abbattute sulla sua famiglia, si reca in carrozza da Colle a Orta per informare il figlio Bastiano che, contrariamente a quanto si era creduto in seguito al ritrovamento di resti umani sulla montagna di Pietrasecca, Pietro è ancora vivo. In casa di don Bastiano sono convenuti alcuni notabili e gararchettí fascisti, per assistere dal balcone alla benedizione di S. Antonio ai somari del paese e dintorni. L’orgogliosa ottuagenaria con tono accorato lo supplica di intervenire a favore « di quello scapestrato, ch’è pure figlio di suo fratello, la buonanima d’Ignazio» e, vedendolo indifferente al suo dolore, lo accusa di vigliaccheria suscitandone una reazione furiosa.

Appena terminata la cerimonia della benedizione, che nella piazzetta antistante si è protratta a lungo tra « lazzi e sberleffi all’indirizzo delle bestie più malconce », donna Maria Vincenza può finalmente ripartire. Ordina al cocchiere Venanzio di dirigersi non a Colle, ma al mulino vecchio, per rilevare il nipote dalle mani dì Sciatàp, dietro un buon compenso per aver taciuto con la polizia. Pietro infatti, fuggendo da Pietrasecca, aveva trovato rifugio nella stalla di Sciatàp e questi aveva mantenuto il segreto per molti giorni.
Donna Maria Vincenza, tenendo il nipote a casa sua, ha la sensazione di aver ritrovato un figlio e si abbandona con lui a confessioni e ricordi tenerissimi. Anche Pietro ha finalmente modo di confidarle le sue angustie, che dipendono dal suo « mancato adattamento al vivere comune con quel che comporta di debole e parassitario »: solo nella stalla di Scíatàp, egli ammette, persa ogni nozione del tempo, non avendo nulla da cercare e da desìderare, sentiva di essere approdato alla sua mèta. Intanto passano i giorni: Pietro si sente al sicuro, ma saputo dallo stalliere Venanzio che la nonna si sta affannando per fargli ottenere « la grazia dal re », tenta di scapparsene di casa nottetempo. La vecchia signora lo sorprende mentre prepara la valigia e si dice pronta a commettere anche lei una follia: accompagnarlo dovunque egli vada, perché convinta di non aver altro motivo per vivere che stare con lui.

Le peregrínazíoni di donna Marìa Vincenza, intese a trovare qualche appoggio per la libertà del nipote, non sortiscono altro effetto che quello d’insospettire la gente e far circolare la voce che presto « don Pietruccio Spina » sarà graziato e amnistiato. La notizia suscita scandalo e preoccupazione tra i notabili del paese, soprattutto perché temono che egli torni « ad attizzare l’odio dei cafoní contro i proprietari », come dice un po’ per tutti Eufemia De Dominicis, nota come la zia Eufemia, singolare figura di legittimista borbonica e ultima erede di un’antica famiglia che aveva spadroneggiato nella zona di Colle e di Orta, prima che gli Spina divenissero « i più ricchi proprietari della contrada » acquistando con pochi soldi le terre della Chiesa messe all’incanto in seguito alla legge sulla manomotta. Particolarmente contrario al ventilato provvedimento in favore di Pietro si dichiara don Lazzaro Tarò, onesto proprietario da sempre insofferente del contegno stravagante della famiglia Spina; egli addirittura s’infuria con l’avv. don Coriolano, recatosi a Roma per chiarimenti sulla petizione di grazia, e ancor più con padre Gabriele, venuto a Colle per le prediche di quaresima e apparsogli difensore di una « famiglia nemica » sol perché gli ricorda il dovere del perdono.

Ma tanta preoccupazione è per nulla: la petizione di grazia deve essere sottoscritta dall’interessato e Pietro si rifiuta con fermezza di apporvi il suo nome. Da giorni la faccenda della « firma » fa il giro del paese, suscitando apprensioni e ironici commenti; l’unico a pensarla in modo diverso è Simone-la-faina, il quale teme che se Pietro viene perdonato, tutto rientra nell’ordíne: « Finirà anche lui un puledro governativo, mangerà anche lui alla greppia ». Ma, in realtà, non vi sono dubbi al riguardo: ad una ennesima richiesta della nonna, Pietro ha opposto il suo più netto rifiuto e la vecchia signora la prende « come un lutto », « come uni disgrazia senza rimedio ». In uno sfogo dolente con don Severino, anche lui amareggiato ‘perché licenziato – su petizione popolare – come organista della chiesa d’Orta a causa della sua relazione con Faustína, lamenta la cattiveria della gente, la viltà dei parenti, la scomparsa dell’amicizia, la triste sorte del nipote, di cui riconosce « la sensibilità la timidezza la delicatezza, perfino pudore, di quando era ragazzo ».

Intanto si diffonde la voce che è stata donna Maria Vincenza a rifiutare la grazia govetriativa per suo nipote e don Coriolano ne attribuisce la responsabilità al predicatore quaresimalista; ma il parroco, don Marco, lo scagiona facendo osservare « che gli Spina non hanno mai avuto bisogno d’istigatori per le loro pazzie ». Don Coriolano si affligge della cosa come d’un personale insuccesso subìto per vile tradimento e solo dopo una lunga discussione in casa di don Lazzaro, don Severíno riesce a convincerlo che, informando le autorità di Roma dell’arbitraria interferenza del frate nella faccenda, il suo nome farebbe il giro della stampa nazionale e così diventerebbe « l’eroe d’un incidente nei rapporti tra Stato e Chiesa ».

Don Coriolano si è appena rinfrancato alle parole dell’amico quando sopraggiunge, con altri due camerati, don Marcantonio ad annunciargli che d’ora in poi deve ritenersi « rigorosamente dispensato » dal partecipare a cerimonie politiche, poiché reo di « pietismo » verso gli Spina. Don Coriolano respinge con disprezzo la sentenza che trova « ridicola » per chi, come lui, sarebbe capace di cavare « gli occhi col temperino al migliore amico »; ma il gerarca gli obietta che così è stato deciso dalle alte sfere e che lo sostituirà lui, nelle orazioni ufficiali, con una eloquenza non più liricocelebrativi, ma consona allo spirito eroico della rinnovata grandezza dell’impero romano.
Mentre fuori si discute tanto dell’orgoglio, delle colpe, delle pazzie degli Spina, Pietro se ne sta prigioniero in casa, a rodersi tutto solo. Ha messo mano da poco a scrivere una Lettera a un giovane europeo del XXII secolo con speciali avvertenze ai ragazzi dell’ex naZione italiona quando Venanzio, lo stalliere, viene -ad informarlo d’un povero straccione arrestato il giorno prima dai carabinieri mentre vagabondava senza documenti nelle vie del paese.

Convinto che si tratti di Infante, il sordomuto di Pietrasecca conosciuto nella stalla di Sciatàp, Pietro implora il servo di adoperarsi con qualche pretesto per liberatlo; ma Venanzio, temendo d’incorrere in qualche pericolo con la legge, si rifiuta e viene messo alla porta in malo modo. La sera, a tavola, Pietro non tocca cibo e ascolta distratto e infastidito il racconto della nonna sulla visita della zia Eufemia, venuta a congratularsi per il rifiuto « opposto all’offerta di grazia dalla dinastia piemontese », un gesto che proverebbe il definitivo distacco della famiglia Spina « dalla gente volgare ». Egli si riscuote solo quando sente che Venanzio è andato in caserma, per tentare di far rilasciare lo sconosciuto; e per giustificare l’amarezza di non poter soccorrere l’amico con cui ha trascorso il suo miglior tempo nella stalla di Sciatàp, si abbandona al tenero ricordo di quella prigionia da cui è « uscito se non completamente trasfori-nato, certo spoglio nudo ».

A notte inoltrata, non sapendo ancora nulla sul tentativo di Venanzio, decide improvvisamente di andar via, ma nel momento in cui si accinge a scrivere due parole di addio alla nonna, questa lo chiama dalla stanza accanto e gli racconta di aver fatto un so-,no che le ha lasciato tutte le membra fortemente índolenzite (aveva sognato d’essere un’asina che portava in groppa il nipote alla ricerca del padre; trovatolo, dopo lungo peregrinare, nel santuario della Santa Casa di Loreto, prima che si riabbraccíassero il nipote era sparito, lasciandola stanca e delusa), Nel frattempo rincasa Venanzio: « estenuato, tetro, di pessimo umore » perché i suoi « peggiori presentimenti » si erano avverati.

Egli è rimasto infatti per delle ore in caserma perché, non volendo che il proprio nome finisse nell’« Archivio della giustizia », si rifiutava di firmare la testimonianza in favore del sordomuto. Lasciati poi finalmente liberi al calar della sera, con molta fatica era riuscito ad accompagnare Infante al vecchio paglíaio degli Spina, ora in possesso di Simone-la-faina. S’imbatte in quest’ultimo proprio mentre torna ubriaco dalla bettola ed è costretto a sopportarne gli « sproloqui » sugli sbirri e sulle leggi. Spiegatogli bene tutto l’accaduto e richiestogli di alloggiare il sordomuto` fino al mattino, Venanzio finalmente era tornato a casa « stanco umiliato disgustato di sé e dell’esistenza ».

Qualche sera dopo, saputo che Infante non si è allontanato da Simone-la-faina, Pietro decide di raggiungerlo: quella stessa notte, dopo aver scritto un biglietto per la nonna, lascia la casa e si reca nel pagliaio che un tempo era la scuderia di suo zio Bastiano. Simone è felícissimo di ospitare i due fuorilegge. Nel pagliaio si crea un clima di singolare amicizia, di cui sono partecipi anche l’asino Cherubino e il cane Leone. Quando Simone è fuori per provvedere ai bisogni, Pietro riprende a insegnare a Infante l’uso di qualche parola, col metodo della sillabazíone già sperimentato nella stalla di Sciatàp. Simone, che ha fama « d’uomo selvatico e dissennato », in realtà ha accumulato un’infinità di delusioni e tuttavia conserva il culto dell’amicizia più disinteressata: si affanna come può per procurare lo stretto necessario e vuole che gli ospiti se ne stiano tranquilli e perfino allegri.

Ama discorrere a lungo con Pietro, informandolo delle sue stravaganze più che delle sue amarezze: straordinaria la invenzione della sua « pillola perpetua ». una pallina bianca, di antimonio, che gli abitanti di Colle si passano come lassativo di famiglia e che il capoguardia don Tito, con la sua divisa da generale, s’incarica – senza però riuscirvi – di requisire dal momento che « la funzione di purgare i cittadini è uno degli attributi fondamentali dello Stato, se non il fondamentale, e ad esso il governo non può a nessun costo rinunziare », Un giorno Infante, uscito a riempire un secchio d’acqua, rientra tutto ansimante e fa capire, con gesti e balbettii, d’aver intravisto qualche pericolo nelle vicinanze. Pietro per intuito riesce a sospettare che si tratti di Scíatìp e allora Símone lo rincorre fin nel paese e, dopo aver tentato inutilmente di dissuaderlo dal proposito di continuare a ricattare donna Maria Vincenza, passa a vie di fatto ed ha con lui uno scontro violento, al termine del quale, in apparenza rappacificatosi, Sciatàp spiega le ragioni del suo risentimento contro i signori , che lo hanno tenuto come una bestia da soma, senza consentirgli neppure di parlare (il suo soprannome, avuto da emigrante, significa appunto « sta zitto »).

Del piano ricattatorio di Scíatàp si ha conferma da Venanzio, inviato dalla stessa donna Maria Vincenza a sollecitare Simone per un rifugio più sicuro. Ma Pietro lascia intendere che ormai non gli preme più di fuggire, poiché non vuole assolutamente « diventare un personaggio da romanzo poliziesco »; del resto, anche quando gli sbirri lo avranno preso, egli si sentirà più che mai libero.
Sciatàp, ripartito malconcio da Colle, sempre a cavallo si reca a Orta, dove spera di concludere i suoi affari spillando denaro a don Bastiano Spina o, in caso contrario, denunziando suo nipote all’oratore governativo don Marcantonio. Fallito il tentativo con don Bastiano, che proprio quel giorno ha subìto l’ultimo smacco nella ara d’appalto per la costruzione d’un ponte vinta dal concorrente Calabasce, Sciatàp si presenta in casa di quest’ultimo, dove tutti i notabili del paese si sono riuniti e attendono l’arrivo di don Marcantonio per festeggiare un evento, il cui significato « supera di gran lunga il guadagno pure cospicuo » in quanto « per gli Spina è ormai l’inizio della fine ». Don Marcantonio giunge con molto ritardo, tutto infangato e a piedi perché ha dovuto lasciare la moto in un fosso alla curva prima d’Orta, dove « qualcuno ha avuto – egli dice – il gentile pensiero di farmi ribaltare su un tronco d’albero messo di traverso alla strada ».

Il sospetto di responsabilità o complicità dell’accaduto, naturalmente, ricade sui presenti al banchetto, che hanno preceduto l’arrivo dell’oratore cavalíere per la stessa strada e che, a voler scrutare bene nei loro trascorsi, non sono davvero senza macchia nei riguardi del nuovo regime. Ad avere quella idea geniale, invece, è stato Simone-la-faina, il quale, saputo che Scíatàp si era diretto a Orta anziché a Píetrasecca, suo paese natìo, lo aveva seguìto col suo asino per una scorciatoia, seriamente intenzionato a dargli una lezione definitiva. L’incontro avviene in un vicolo buio, con un susseguirsi d’oscure minacce ed improperi: Sciatàp, non avute le garanzie sulla taglia promessa ai delatori di Spina, ha lasciato di corsa don Marcantonio inviperito; Calabasce lo ha inseguito per costringerlo con la forza a fare la denuncia; Simone è deciso ad affrontare tutti e due, ma cede al buon senso: con uno spintone invita Calabasce a tornarsene coi suoi pari, « al porcile », e lascia che Sciatáp si allontani senza dire una parola. Montato sull’asino, anche Simone decide di tornarsene a Colle, ma fa un altro incontro spiacevole: attraversando le vie di Orta, passa davanti alla casa Spina e vede sul verone della scala esterna don Sebastíano « solo, immobile, avvolto in un mantello nero ». Non lo degna d’un saluto e, all’invito di fermarsi, continuaper la sua strada con un’aria di disprezzo.

Arrivato finalmente a Colle, Simone, per raggiungere il suo pagliaio, deve passare – all’uscita del paese – davanti alla casa di don Severíno, l’organista che apparentemente convive da qualche tempo con donna Faustina, una bella ragazza sui trent’anni odiata in paese perché ritenuta di facili costumi e causa della disperazione di don Saverio Spina, lo zio di Pietro andato volontario alla guerra d’Africa, dove ha trovato la morte. Accortosi che le luci in casa sono ancora accese, benché sia molto tardi, Simone pensa di salutare l’amico e, non trovatolo, s’intrattiene a conversare con Faustina, della quale egli ha sempre avuto grande ammirazione (fu il solo, ad esempio, che la difese dalla folla che voleva lapidarla quando lasciò casa Spina). L’incontro si tramuta in una occasione di interessanti rivelazíoni, dall’una e dall’altra parte, la più sorprendente delle quali è che Faustina, dall’età di quindici anni, ama Pietro senza che egli ne abbia saputo mai nulla.

Simone, resosi conto ormai che sarebbe opportuno trovare altro rifugio per il giovane amico, lascia che egli parta al più presto, con ,n calesse della nonna e in compagnia di Faustina, in direzione di Acquaviva, un piccolo centro situato al di là della conca del Fucíno. Lasciando la terra dov’è nato e cresciuto, « il ritrovato paese della sua anima », Pietro sente trafiggersi il cuore. All’ultimo villaggio sul versante del circondario fucense, lo attende lo zio Bastiano: l’incontro è di una freddezza glaciale. Lo zio vorrebbe scaricarsi d’un gravissimo peso che porta sulla coscienza dai giorni del terremoto del 1915, consengnandogli un portafogli gonfio di banconote sottratto alla madre morta tra le macerie; Pietro, che gli confessa d’aver assistito per caso a quell’orribile gesto di « sciagurata ingordigia », prende quel « maledetto denaro » e, bruciatolo sotto gli occhi dello zio incredulo, si rimette subito in cammino. Fatta molt’altra strada, Pietro e Faustina arrivano ad Acquaviva e pernottano in una modesta locanda, senza comportarsi « come i personaggi dei romanzi d’appendice », per la semplice ragione che non lo sono.

Il mattino seguente, Pietro e Faustina decidono di fare una passeggíata e per la prima volta si confidano teneramente un amore che dura ormai da oltre quindici anni: lui ammette di non aver avuto il coraggio di dichiararlo da ragazzo perché provava un sentimento come di adorazione; lei dice che la sola cosa autentica della sua vita, tra tutte le finzioni cui si è dovuta adattare, è il ricordo che ha sempre serbato di Pietro adolescente. Il discorso cade su molti altri argomenti, tra cui il destino, il dolore, la felicità. Quando vanno per rientrare in albergo, trovano un’accoglíenza straordinaria: Pietro viene scambiato per il capitano Saverio Spina, del quale sono stati trovati indumenti e ricordi militari nelle valigie aperte a forza durante la loro assenza. Faustina viene colta da malore e Pietro la conforta dicendole che non potrebbe « più vivere nel deserto della sua lontananza ».

Sfruttando il favore del caso, Pietro resta alloggiato all’Albcrgo Vittoria già del Commercio come capitano Saverio, ammogliato, senza figli e bisognoso di « distrarsi » per un grave esaurimento nervoso, mentre Faustína ritorna a Colle. Qualche giorno dopo, arrivano ad Acquaviva Simone e Infante, che ridanno un certo buon umore a Pietro; e poi ancora don Severino, che gli porta notizie di Faustina e suggerísce a Simone, che ne resta scandalizzato, di riproporgli la faccenda della « grazia governativa », poiché « Un vero amore vale più di qualsiasí ideologia ».

1 tre « forestieri » si mettono al servizio di Cesidio, detto don Litro, un piccolo proprietario « dispensato dal partecipare alle adunate patriottiche » dal giorno in cui, con la solita sbornia, suscitò « una pericolosa ilarità » con alcune domande rivolte al podestà che teneva un discorso. La figlia di Cesidio, Carmela, già preoccupata delle ritorsioni che la famiglia subisce, si lamenta di quella strana compagnia, ma don Litro non se ne dà per inteso. Una mattina le autorità del paese sono turbate da un fatto futile in apparenza: durante la notte qualcuno ha aggiunto un grosso punto interrogativo al motto « Lo Stato è tutto » che compeggia sulla facciata del municipio. Il fatto si ripete successivamente sulla facciata del vecchio mulino, dove ora si legge Credere? Obbedire? Combattere? Il brigadiere osserva che dalla grafia si direbbe che sono sgorbi di un semianalfabeta, ma il fenomeno appare più serio quando si viene a capire che si è verificato perfino sui casolari di campagna. A chi vorrebbe come scusarsi del « fattaccio », il capitano Spina lascia intendere che ne è tutt’altro che dispiaciuto.

Col trascorrere dei giorni, Pietro si sente immalinconito dalla lontananza di Faustina, ma rinvigorito dal lavoro dei campi e come esaltato dal momentaneo recupero della libertà. Con l’aiuto di Cesidío e Pasquale il botatio, altro renitente agli ordini del regime, fa addirittura il giro dei paesi vicini per ritrovare i suoi vecchi compagni di lotta, già iscritti alle Leghe rosse; ma ne riceve più delusioni e amarezze che conforto e incoraggiamento. Simone lo accompagna dovunque, convinto di appartenere ormai ad una « brigata d’amici » che si sentono « tutti, più o meno, allo sbaraglio » e non devono più preoccuparsi della loro pelle « già venduta ». Ma un giorno giunge una notizia che li mette in ansia: alla stazione di Prezza è stato visto un cafone ammanettato tra due carabinieri, accusato di « grida sediziose contro la guerra d’Africa ».

Cesidío s’incarica subito di recarsi al paese vicino per individuare lo sconosciuto e scopre che si tratta d’un certo Nicandro, con famiglia a carico: ne trova la moglie desolata e pian,gente in casa, che si scaglia contro gli amici che l’hanno rovinato e si dispera perché non in grado di sarchiare un campo di granoturco. Il giorno dopo, mentre la povera donna se ne sta ai margini del campo avvilita dal poco lavoro compiuto, arriva un giovane vigoroso e selvatíco, con addosso una camicia di seta, e in poco tempo porta a termine il lavoro rifiutando ogni promessa di denaro. Ignorando che si tratta di Infante, si grida al miracolo d’un provvidenziale intervento di Gesù in persona; e la voce si sparge rapidamente, suscitando commenti disparati ed emozione.

Compiuto il « miracolo », Infante scompare da Prezza. Pietro e oli altri amici lo cercano in ogni angolo di quella contrada, lungo il Gizio, il Sagittario, l’Aterno, per le vie di Pratola, Vittorito, Pentima, Roccacasale, ma inutilmente. Pietro non cessa di darsi pena per la scomparsa dell’amico sordomuto. Nel frattempo arriva don Severino, per dargli la triste notizia della morte di donna Maria Vincenza e riferirgli alcuni particolari molto interessanti: lo zio Saverio, in una lettera scritta dalla Cirenaica una decina d’anni addietro e occultata dalla moglíe donna Clotilde, scagionava Faustína da ogni sospetto circa l’incredibile storia dei suoi amori; Faustina, ingiustamente disonorata di fronte a tutto il paese, per non finire sulla strada, aveva accettato la ospitalità in casa di don Severino e sua sorella, apparentemente vivendo in concubinato, ma in realtà senza alcuna macchia di peccato. La ragazza dunque, apparsa all’occhio della gente una « diabolica seduttrice », in verità era stata solo una povera « vittima » di due situazioni dolorose e tuttavia disposta a portare « il suo segreto nella tomba ».

Don Severino vorrebbe che Pietro portasse con sé Faustina, magari anche all’estero, e s’incarica di procurargli un passaporto; nell’attesa, per conoscersi meglio e decidere con calma del proprio avvenire, potrebbero trasferirsi a Caramanico, presso una sua vecchia cugina. Pietro sembra propenso ad accettare la proposta. Ma poi le cose precipitano in maniera turbinosa. Saputo che Infante è finito nel catcere di Popoli sotto l’accusa d’essere l’autore dei punti interrogativi sulle scritte del regime, Pietro vi manda don Severino a liberarlo facendolo apparire un povero analfabeta affetto dalla mania di tracciare segni « su tutte le epigrafi insegne e tabelle che incontrava ». Infante viene scarcerato, ma riconsegnato al padre Giustíno fatto venire espressamente da Lama dei Marsi, il paese d’origine dove era appena rientrato dall’America, dopo vent’anni di penosa emigrazione, più povero di prima. Alla stazione di Popoli, Infante si rifiuta di seguire il padre e, col calesse di Pietro, tornano tutti insieme ad Acquaviva.

Don Severino riparte per Orta, dopo aver concordato con Pietro l’incontro con Faustina (a Caramanico). Pietro sembra rassicurato circa l’avvenire d’Infante soprattutto perché, come spiega Simone, il padre manca d’un braccio « e ha bisogno di lui ». In realtà Infante non si rassegna all’idea di tornare a Pietrasecca col padre e, durante la notte, lo uccide a coltellate. Pietro viene preso da « accorata compassione » per l’amico sordomuto e, con un’altra delle sue « pazzie », si consegna ai carabinieri come autore del delitto, ponendo termine alla sua vita clandestina.