Pane e vino


Allo scopo di poter ricostruire tutte le fasi del primo momento dell’espefienza narrativa di Silone, siamo convinti della necessità del recupero dei racconti riuniti nel volume Un viaggio a Parigi, poiché non crediamo che essi possano occupare lo spazio d’un semplice « intermezzo », ma che abbiano svolto un ruolo più che di rodaggio nel cammino dello scrittore, anzi di riflessione e di spinta verso quella più consapevole scoperta del proprio mondo che sì attuerà con i cosiddetti « romanzi di Metro Spina »: Pane e vino e Il seme sotto la neve. Scritto nel biennio 1935-36, in gran parte a Zurigo, dove Silone si era trasferito dal 1931, Pane e vino apparve in traduzione tedesca, a cura di Adolf Saager, nel 1936, a Zurigo, e l’anno dopo. a Lugano, in « edizione italiana per l’emigrazione », a cura dello stesso autore. Successivamente rielaborato, in Italia vedrà la luce solo nel maggio del 1955 col titolo Vino e pane, nella collana « Narratori Italiani » di Mondadori.

Nato da una perfetta fusione di realtà e fantasia, sulla falsariga dell’espefienza vissuta da Silone in prima persona non meno che alla luce dei suoi sogni utopistici, Pane e vino s’íncentra sulla tensione morale e politica di un intellettuale di sinistra che riscopre l’eredità cristiana in una disperata ricerca di riscatto sociale, anticipando almeno d’un decennio tutto il ricco filone della narrativa « impegnata » del dopoguerra, senza tuttavia scadere negli eccessi della propaganda ideologica di certo neorealismo.

LA TRAMA DEL ROMANZO

Il titolo suggerisce e riassume i dati della duplice dimensione, realistica e simbolica, della “storia” che vi si racconta: pane e vino, un tempo alimenti essenziali di una gente che si contentava di poco, finiscono qui per esprimere l’urgenza di una comunione evangelica, come nel sacrificio che si celebra nella messa, ma senza fughe in un misticísmo rinunciatario, anzi con un sicuro impegno per condurre a compimento quell’ansia di radicale « renovatio rerum » che fu propria della più sana tradizione religiosa.

Siamo nel 1935, a Rocca dei Marsi, un paesíno immaginario, ma che può trovare precisi riscontri nei centri abitati del circondario del Fucíno. Don Benedetto vi è stato, in un certo senso, confinato dal vescovo: valentissimo docente di lettere nel Liceo diocesano, è stato rimosso dall’insegnamento perché le sue idee liberali costituivano un pericolo per l’educazione dei giovani non meno che per i buoni rapporti tra la Chiesa e il Partito Fascista. Da una quindicina d’anni il prete se ne sta rassegnato nella sua casetta, invecchiando ormai tra í suoi libri e l’orto. Per la ricorrenza del settantacinquesimo compleanno, la sorella, che vive con lui, ha invitato alcuni dei suoi ex allievi, almeno i più vicini e affezionati, ma giungono solo Nunzio Sacca, medico, e Concettino Ragù, ufficiale della milizia, cui poco dopo si aggiunge don Piccirilli, confidente della curia vescovile e parroco molto ambizioso, capace di confondere le questioni di fede con le percentuali delle confessioni e comunioni.

L’incontro è tutt’altro che cordiale: don Benedetto rifiuta l’invito a benedire il gagliardetto e chiede notizie degli assenti, specialmente di Pietro Spina, il suo allievo prediletto anche se « era insaziabile, inquieto, e spesso indisciplinato ». Nunzio riferisce di non sapere più di quanto fosse da tempo già noto e cioè che, arrestato nel 1927 e deportato a Liparí, ne era fuggito ed espatriato clandestinamente. Ma, sulla via del ritorno da Rocca, Concettino rivela all’amico che Pietro è rientrato in Italia e che la polizia è già sulle sue tracce.
Pietro Spina, in realtà, truccatosi astutamente da vecchio, era sfuggito alla polizia di frontiera e, dopo una breve sosta a Roma, si era diretto nella Marsíca. Ad Acquafredda, paesíno distante pochi chilometri da Rocca, lo accoglie Cardile Mulazzí, un giovane contadino conosciuto in Francia con altri paesani emigrati per lavoro. R gravemente malato di tísi. Una mattina, all’alba, Cardile decide di farlo visitare da un medico, il dott. Nunzio Sacca. Imbarazzante l’incontro tra i due, già intimi amici e compagni di collegio, ora divisi da idee politiche.

Nunzio finisce per riconoscere il proprio opportunismo, che è poi quello di tutti, e non può non ammirare il coraggio e l’integrità morale di Pietro: gli raccomanda, anzi, di aver molta cura di sé, di starsene nascosto nella stalla di Cardile, in attesa che si trovi un rifugio più comodo. Fatto del pagliaio di Candile il suo sanatorio, Spina cerca di guarire e di vivere, cibandosi quotidianamente di pane e vino. Non si dispera e soprattutto non si annoia: ritrovato il mondo che da emiarato era costretto a fingersi con l’immaginazione, tutto gli sembra autentico e necessario, concreto e vero: le cose della natura così come il suo corpo malato. Passa il tempo ragionando con se stesso e rileggendo alcuni suoi « quaderni sgualciti » di appunti leninisti sulla rivoluzione agraria, che ha sempre pensato di utilizzare per uno studio sulla questione meridionale. Una mattina, di luce chiarissima, non resistendo alla tentazione di farsi un bagno, si reca in un abbeveratoio non molto distante e lì viene sorpreso da una giovane contadina, « robusta, sicura di sé, non facile a intimidire »: si chiama Margherita, è cugina di Cardile ma non ha buoni rapporti con lui; è sposata e abita in un casolare di campagna, non lontano.

Tra i due, dopo qualche battuta, tra l’ironico e il serio, nasce subito della simpatia. L’indomani si rivedono e la giovane, messa in sospetto da precedenti avvertimenti dei carabinieri in perlustrazione, gli dice chiaramente di aver capito che è l’uomo ricercato e confessa il suo stupore per la sua « vita disperata ». Gli propone di far sapere qualcosa alla nonna, che dicono sia « una vera signora », ma Pietro risponde di aver rinunziato alla parentela del sangue e ormai tiene solo a « quella delle anime ». La sera del giorno seguente, Nunzio lo convince a lasciare il pagliaio per un rifugio più sicuro: travestito da prete e assunto il nome di don Paolo Spada, della diocesi di Frascati, Pietro Spina pernotta in una locanda di Fossa dei Marsi, dopo aver attraversato in cocchio quasi tutta la Marsica e rivisto, col cuore in gola, il suo paese natìo, Orta. La locandiera, Berenice Girasole, benedice la divina provvidenza che ha inviato un prete a salvare l’anima della figlia, Bianchina, morente per procurato aborto Per sua fortuna, l’indomani don Paolo lascia l’albergo Girasole e si porta, col carretto del vecchio Magascià, in un paesíno sperduto tra i monti vicini, Pietrasecca, che ha l’unico vantaggio di essere quasi dimenticato dalle « autorità ».

Preso alloggio nella locanda di Matalena, vecchia superstiziosa che ha perduto il marito in Argentina, don Paolo è trattato come un figlio e riverito da tutti, ma la solitudine e la condizione di falso prete lo stancano, per cui decide di partirsene appena sfebbrato. Un giorno viene a cercarlo Bianchina (che dice di essere stata miracolata da lui, dando a credere a Matalena che sia più che un santo) e don Paolo progetta di affidarle una missione per Roma, Quello stesso giorno conosce Cristina, figlia d’un possidente locale, e ne resta affascinato. Saputo poi che la ragazza intende farsi monaca, cerca di dissuaderla con argomentazioní poco confacenti all’abito che indossa; e, impossibilitato a svelarsi, annota in un diario i pensieri che lo tormentano sul tema della menzogna (egli deve mentire con se stesso, con Cristina, con la Chiesa, col partito).

Desideroso di stringere i rapporti con Cristina, don Paolo va a farle visita. Casa Colamartini gli si presenta come una sorta di castello rattristato dalla presenza di tre donne mummificate: la nonna, tiranna senza scrupoli, la matrigna, anche lei tutta malandata, e una vecchia zia. Non c’è il fratello di Cristina, Alberto, che ha fama d’un vagabondo e pare sia stato causa dei guai di Bianchina. Il padre, don Pasquale, riferisce d’essere stato con Cristina a Rocca dei Marsi e di aver sentito don Benedetto elogiare don Paolo e prendere le difese d’un « certo famigerato Pietro Spina ». Lamenta poi lo stato di decadimento della propria famiglia e il pericolo che essa finisca, se Cristina persisterà nel proposito di chiudersi in un monastero. Don Paolo cerca ancora di dissuadere la ragazza e con vivo stupore scopre che anche lei ha delle « idee medievali » sulle disuguaglianze sociali e sull’onore di famiglia. Si lasciano, per questo, con modi un po’ bruschi.

Tornato nella locanda, don Paolo trova Matalena alle prese con la fattucchiera Cassarola. Sopraggiunge fra Gioacchino, un cappuccino questuante, e con lui si ragiona della « íngordigia della proprietà », causa d’ogni male, morale e sociale. Don Paolo si entusiasma al discorso, segno che il peggio sta passando. A scuoterlo e farlo rivivere, in un certo senso, arriva una lettera di Bianchina da Roma che lo informa della missione felicemente compiuta: egli spera così di uscire dal suo « forzato isolamento », riannodando le relazioni col partito. Nell’attesa che avvenga il miracolo, pensa intanto di accostare i contadini del posto stimolandoli a riflettere sulle proprie condizioni, ma ne resta sgomento poiché li vede fatalmente rassegnati a sopportare il peso della miseria e pronti a giudicarlo piuttosto « un prete un po’ matto ».

Avvilito nel più profondo, don Paolo si accinge a scrivere appunti « Sull’in accessibilità dei cafoni alla politica ». La sua sfiducia trova conferma, la sera seguente, in un incontro con un gruppo di contadini capeggiato da Scíatàp, Magascià e Daniele, i quali confessano una totale indifferenza per i partiti e il governo e giudicano non altro che un sogno l’avvento di una società libera e giusta. Nei suoi appunti egli annota: « Forse essi hanno ragione ».
Il giorno dopo si reca a Fossa, dove rivede Cardile; Bianchina gli consegna del materiale di propaganda riportato da Roma e riguardante la crisi nella direzione del Partito Comunista Russo: esaminatolo, don Paolo lo definisce roba « da Bisanzio », cioè inutile e vuota ai fini della emancipazione dei cafoni. Ha poi modo di fare nuove conoscenze: l’avvocato Zabaglione, già capo dei socialisti della zona ed ora alla ricerca d’un allineamento col partito al governo; il farmacista don Luigi, che ammette l’esistenza d’un vivo fermento tra i giovani fascisti, i quali vorrebbero « una seconda rivoluzione »; Alberto Colamartiní, fratello di Cristína, che gli sembra più assennato di quanto non potesse prima sperare; Pompeo, amico di Alberto e Bianchina, anch’egli sostenitore di una nuova rivoluzione secondo lo spirito d’un certo corporativismo di sinistra, ma abbastanza sensibile alle riflessioni di don Paolo circa « l’uso da fare della nostra esistenza ».

Rinfrancato dal colloquio con Pompeo, don Paolo pensa che forse « il momento dell’azione si presenterà prima di quello che ora » si possa credere e decide di recarsi a Roma. Giunto alla stazione Termini, indossa subito gli abiti civili e torna così ad essere Pietro Spina. Dopo aver rivisto qualche amico, pernotta nella baracca d’un suo vecchio compaesano, detto Mannaggía Lamorra, che da ragazzo era stato al servizio di casa Spina a Orta. L’indomani, con mille accorgimenti, in una piccola chiesa sull’Aventino s’incontra col segretario interregionale del partito, certo Battipaglia, che gli dà un nuovo passaporto per l’estero. Pietro lo rifiuta, convinto di dover operare tra la sua gente. Ne nasce un diverbio, che si accende maggiormente sul « caso Bukarin » e « gli altri traditori » condannati da Stalin. Pietro viene minacciato di espulsione dal partito.

Sconvolto dall’urto con Battipaglia, Pietro si mette alla ricerca di altri compagni e rintraccia il violinista Uliva, un abruzzese della provincia di Chieti che non rivede dal tempo trascorso nel gruppo degli studenti comunisti. Uliva, che ha già scontato il carcere ed è ridotto alla fame con la moglie in attesa d’un figlio, lo accoglie con molta indifferenza, anzi con aria di disprezzo, persuaso che egli non sia altro che « un impiegato di partito ». Senza troppi convenevoli, gli scarica addosso tutta l’amarezza di chi non crede più nella « passione rinnovatrice » della rivoluzione socialista, lo accusa di inguaribile « ingenuità », cioè di « una capacità portentosa » di illudersi sulle possibilítà di creare un regime « a immagine dell’uomo ». Pietro reagisce con forza, ma finisce per ammettere che in fondo è davvero un « rivoluzionarío per paura , nel senso che « se non credesse nella libertà dell’uorno, la vita gli farebbe paura ».

Salutatosi freddamente con Uliva, Pietro s’imbatte in una manifestazíone di studenti a favore della dichiarazione di guerra contro l’Abissinia, poi in una esercitazione di ragazzi avanguardisti mitraglieri e cannonieri. Le due scene lo accotano al punto che non riesce a trattenere le lagrime. In tale stato, si rivede con Romeo, il quale lo informa dell’appartamento di Uliva saltato in aria per lo scoppio di un ordigno (si dice che stesse preparando un attentato contro il Governo), dell’arresto d’un ragazzo che teneva i collegamenti del gruppo clandestino, dei pericoli che l’organizzazione venga scoperta, dell’íntenzione che ha Battipaglia di metterlo fuori dal partito.

Pietro si rende conto di tutto, non si preoccupa del partito, si dice « stufo di aspettare » (essendo rientrato in Italia da sei mesi) e decide di tornare nella Marsica per tentare qualcosa. Avendo bisogno d’un collaboratore fidato, pensa di rivolgersi a Murica, ma apprende da Annina, la sua ragazza, che deve essere tornato in paese dopo l’esperienza del carcere e la violenza da lei subìta per amor suo.

Pietro, nella veste di don Paolo, giunge a Fossa mentre fervono i preparativi (con festoní, bandiere, iscrizioni inneggianti, ecc.) per la dimostrazione popolare in favore della guerra d’Africa. La locanda Girasole gli sembra il principale centro di propaganda. Incarica Biancbina di ricercare Luigi Murica a Rocca dei Marsi. Il pomeriggio trascorre in un clima di eccitazione generale, nella persuasione che la guerra sia una salvezza per tutti: per i giovani in cerca di gloria, per gli uomini carichi di debiti e in cerca di lavoro, per i preti che devono elargire benedizioni, per un socialista rinnegato come l’avv. Zabaglía che aspetta un’occasione d’oro come quella per donare alla gente il « fascino » della sua oratoria. Il solo estraneo alla festa è don Paolo, che non trova pace e si dà ad una sorta di fuga per i vicoli del borgo, scrivendo sui muri parole esaltanti la pace e la libertà dei popoli. Rientra sul tardi in albergo e vi trova Pompeo venuto a salutarlo perché partirà « volontario per l’Impero sociale ». Afflitto oltre ogni misura, viene scosso dalla tosse e perde sangue dalla bocca.

Lo soccorre Bianchina, anche lei coinvolta nell’euforia festaiola.
Nei giorni seguenti, Fossa e dintorni sono in subbuglio per le scritte sui muri. Bianchina si stupisce del gran rumore che si sta facendo per due parole a carbone e intuisce chi può aver osato tanto allorquando don Paolo le spiega il significato del dissenso individuale in un regime di dittatura. Saputo poi che Pompeo si è recato ad Avezzano per denunciare il responsabile, lo raggiunge e riesce a dissuaderlo, per cui si finisce con l’attribuire il gesto sconsiderato ad uno sconosciuto: « Il solito sconosciuto », dice con rabbia il maresciallo dei carabinieri. Scampato il pericolo, don Paolo pensa di tornarsene all’estero e promette scherzosamente alla ragazza di portarla con sé.

Il giorno dopo, non essendosi potuto sottrarre ad un ennesimo invito di don Angelo Girasole, curato di Fossa e fratello di Berenice, don Paolo si reca a visitare la chiesa parrocchiale e si dà ragione dei compromessi di coscienza cui la Chiesa è pervenuta « in capite et in membris ». Tornando in albergo, assiste ad una scena impressionante: due poveri cafoni, venuti da Orta per una causa in pretura, rischiano il lincíaggio solo perché lo sconosciuto autore delle scritte sediziose, secondo la falsa confessione di Pompeo, si era allontanato in bicicletta verso Orta. Don Paolo decide di lasciare il paese, ma vuole prima rivedere don Benedetto. L’incontro col vecchio professore per lui è emozionante: due anime anticonformiste si confessano con angoscia, accomunate dalla sola consolazione di credere nella verità, ma tormentate dal dubbio che ogni sforzo sia inutile per modificare la realtà.

Un giorno, don Paolo riceve la visita d’un giovane sconosciuto, mandato da don Benedetto: è Luigi Murica, di Rocca, che gli racconta tutto della sua vita, dall’infanzia infelice all’adolescenza inquieta, ai primi studi nell’Università di Roma, ai contatti col gruppo clandestino, all’arresto e al tradimento per viltà e per bisogno, all’amore per Annina, al forzato ritorno in paese. Confessione sincera e amara, che commuove don Paolo al punto che alla fine gli rivela la sua vera identità. Murica ne resta scosso e non può trattenere le lagrime.
Sparsasi la voce che don Paolo si è finalmente rimesso in salute e può confessare i fedeli, Matalena ne è felice e pensa di far costruire un confessionale. Egli minaccia di andarsene subito, ma intanto viene costretto a raccogliere la confessione di due peccatori incalliti, il vecchío Magascià e Mastrangelo, che gliene raccontano delle belle. Per sfuggire ad altre richieste, don Paolo si reca in casa di Cristina e la conforta del suo appoggio ora che si trova ad essere « padrona e domestica » della famiglia, essendo suo padre morto d’infarto in seguito al fallimento della banca ove teneva tutti i suoi risparmi. Dimenticato lo screzio di qualche mese addietro, egli si sente nuovamente preso dal candore e dalla bellezza della ragazza, per la quale riprende a scrivere qualche pagina del suo diario.

Nel frattempo le cose precipitano: viene arrestato Murica, che si era appena ricongiunto con Annina, « la sposa della città », e ferocemente percosso dalla polizia, muore. Avvertito della tragedia, Pietro Spina va a rendere l’ultimo saluto al giovane amico; e lo fa in abito laico, rischiando d’essere scoperto. Lo raggiunge Bianchina, che gli consiglia di sparire subito poiché ha saputo che la polizia è sulle sue tracce. Con un cavallo del vecchio Murica, padre di Luigi, Pietro ritorna in gran fretta a Pietrasecca per bruciare delle carte segrete e scegliere la via più sicura per la fuga. Sulla porta della locanda, si avvede di Cristina che di corsa viene anche lei ad informarlo d’essere ormai scoperto, come le ha confidato il fratello, arruolatosi da poco nella milizia. Pietro approfitta dell’ultimo incontro’ per consegnare alla ragazza il quaderno del diario. Date disposizioni a Sciatàp per restituire il puledro a Murica, sale in camera per sistemare le sue cose e fugge a piedi verso la montagna coperta di neve. Dopo un paio d’ore, la povera Matalena, accortasi della fuga, corre da Cristina.

Sconvolta per l’accaduto e preoccupata per la sorte di Pietro, la ragazza si rifornisce di indumenti pesanti, di vivande varie e si precipita affannosamente all’inseguimento di lui: arranca sulla neve fin dove può, chiamandolo spesso per nome, ma a rispondere sarà solo l’ululato di lupi affamati. Quando, attraverso il nevischio e le prime ombre della notte, intravede le belve che stanno per aggredirla, Cristina s’inginocchia, chiude gli occhi e si fa il segno della croce. Col sacrificio di Cristina si chiude il romanzo. Ridotta in forme così scheletriche, ovviamente la trama perde gran parte del suo interesse, anche se consente di seguire il filo conduttore dell’intera vicenda nelle sue linee essenziali.